Formazione "il FIGLIO dell'UOMO" ARGOMENTO dalla STAMPA QUOTIDIANA

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2009 dal 5 al 12 Aprile

8a SETTIMANA MONDIALE della Diffusione in Rete Internet nel MONDO de

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dai GIORNALI di OGGI

Hamas apre al dialogo con Obama Bin Laden insiste: "Guerra agli infedeli"

La nuova dottrina Usa sarà annunciata al Cairo

Obama e la democrazia: incoraggiare, non imporre

Washin­gton continuerà a incoraggiare il mondo arabo ad abbracciare i principi di democrazia e libertà

"Non è solo nell'interesse dei palestinesi avere uno stato, è nell'interesse del popolo israeliano stabilizzare la situazione. Ed è nell'interesse degli Stati uniti che vi siano due stati che vivano a fianco a fianco in pace e sicurezza", dice Barack Obama in un'intervista concessa alla Bbc alla vigilia del suo viaggio in Europa e Medio Oriente.

2009-06-03

Ingegneria Impianti Industriali

Elettrici Antinvendio

ST

DG

Studio Tecnico

Dalessandro Giacomo

SUPPORTO ENGINEERING-ONLINE

 

L'ARGOMENTO DI OGGI

 

Il mio Pensiero

Grazie Barack Obama, Presidente USA, hai tenuto ieri 4 Giugno 2009 un grandissimo discorso all'Università del Cairo.

Il discorso avrà una valenza Storica per le nuove posizioni Americane espresse.

Il tuo discorso ha più volte suscitato grandissimi applausi da parte dei presenti, ed ha fatto dire ad Hamas che i Palestinesi sono pronti al dialogo.

Le nuove posizioni del Governo USA sono una Pietra Miliare per un percorso di Pace nel medio Oriente e per il Mondo intero.

Che i Governi del Mondo, a partire dall'Italia e dall'Europa non ti lascino solo Presidente Obama, ma si schierino apertamente al Tuo fianco per fare quello che gli Italiani hanno già fatto e continuano a fare in Libano, e che il tutto serva per portare la pace anche in Iraq, Africa e dovunque ci sono lotte fratricide dettate dall'odio e sopraffazione, prevalga l'Amore, la Fratellanza, l'Aiuto reciproco, la Pace.

E' giunta l'ora, come ha poi detto il Segretario di Stato Hillary Clinton, di trasformare in fatti queste promesse, ed operare per il Bene del Mondo Intero.

Per. Ind. Giacomo Dalessandro

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My Thought

Thank you Barack Obama, U.S. President, you have yesterday, June 4, 2009 a great speech at the University of Cairo.

The speech will have a historic value for the new American positions expressed.

Your speech has often aroused great applause from the present, and did say to Hamas that the Palestinians are ready to dialogue.

The new positions of the U.S. Government is a milestone for a path of peace in the Middle East and the entire world.

That governments of the world, starting from Italy and Europe will not only allow President Obama, but openly side with your hand to do what the Italians have done and continue to do in Lebanon, and that it serves to bring peace in Iraq, Africa and everywhere there are fratricidal dictated by hatred and oppression, will prevail Love, Brotherhood, the Mutual Aid, Peace.

It 'about time, as he told Secretary of State Hillary Clinton, to turn these promises into action, and work for the good of the whole world.

Per. Ind. Giacomo Dalessandro

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Grandissimo discorso di OBAMA all'Università del Cairo.

Estrema Sintesi

UN NUOVO INIZIO - "Sono qui per cercare un nuovo inizio - ha detto Obama esordendo sul palco dell'università -. Dobbiamo fare uno sforzo per rispettarci a vicenda. Non siamo in contrapposizione, possiamo arricchirci a vicenda.

"NIENTE STEREOTIPI" - Obama ha poi sottolineato la necessità di superare gli stereotipi: quelli dell'Occidente nei confronti dell'Islam, ma anche quelli nei confronti dell'America.

AFGHANISTAN E IRAQ - Obama ha però messo alcuni punti fermi. Ad esempio la lotta al terrorismo, giudicata inevitabile. E la netta distinzione tra la caccia agli estremismi e una guerra all'Islam che non c'è. L'intervento militare in Afghanistan, ha detto, è stato inevitabile. Diversamente quello in Iraq, "che è stata una scelta" e che "è stato contestato anche nel nostro Paese".

"LA QUESTIONE PALESTINESE" - Obama ha poi parlato della necessità di superare la violenza del conflitto mediorientale. Israele, ha detto il capo della Casa Bianca, deve accettare l'esistenza di uno stato palestinese e viceversa Hamas deve riconoscere l'esistenza di Israele.

"Sì AL NUCLEARE PACIFICO" - Obama ha anche detto che nessuna nazione dovrebbe interferire sulle scelte energetiche degli altri. "L'Iran - ha precisato - dovrebbe avere accesso al nucleare pacifico, ma deve aderire al Trattato di non-proliferazione"

RELIGIONE E DIRITTI DELLE DONNE - Tra gli altri punti toccati dal capo della Casa Bianca, vi sono la necessità di lavorare per una sempre maggiore estensione dei diritti civili e per la parità tra uomo e donna, per la libertà religiosa in ogni parte del mondo e per fare sì che lo sviluppo economico e la globalizzazione creino opportunità ovunque, e non siano al contrario causa di problemi.

 

In fondo trovate l'intero discorso del Presidente Obama in Italiano ed Inglese (originale), la sua traduzione è stata fatta con Google http://translate.google.it/translate_t#

 

 

CORRIERE della SERA

per l'articolo completo vai al sito Internet

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2009-06-04

Capitale egiziana blindatissima. Poi da venerdì il capo della Casa Bianca sarà in Europa

Obama al Cairo per far pace con l'Islam

"Sono qui per cercare un nuovo inizio"

Discorso di riconciliazione con il mondo musulmano. "L'Iraq ci ha insegnato la necessità della diplomazia"

NOTIZIE CORRELATE

Barack Obama durante il discorso all'università del Cairo

Barack Obama durante il discorso all'università del Cairo

MILANO - "Tutti i popoli del mondo possono vivere in pace tra loro. E' questo il disegno di Dio". Barack Obama lo ha detto chiaramente, in conclusione del suo atteso discorso all'università del Cairo, citando brani del Corano, del Talmud, della Bibbia. E lo ha ribadito più volte nel corso di un intervento durato circa un'ora nel corso del quale ha raccolto tanti applausi e qualche fischio e ha gettato le basi per quello che lui stesso ha definito un "nuovo inizio" nei rapporti tra l'Occidente e il mondo islamico. Deciso ad invertire la tendenza e a spegnere le tensioni che si sono accumulate negli otto anni dell'amministrazione Bush, Obama ha parlato della necessità di superare la questione israelo-palestinese con la creazione di due stati sovrani e indipendenti; ha aperto spiragli all'eventualità che l'Iran sviluppi programmi nucleari per scopi civili; e ha confermato che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di colonizzare Afghanistan e Iraq, insediandovi proprie basi militari. Tutt'altro: entro il 2012, ha annunciato il presidente americano, sarà completato il ritiro delle truppe dall'Iraq, ponendo fine ad un intervento militare che lo stesso Obama giudica ora negativamente. "La paura - ha detto - dopo l'11 settembre ci ha portato ad agire anche contro i nostri ideali".

UN NUOVO INIZIO - "Sono qui per cercare un nuovo inizio - ha detto Obama esordendo sul palco dell'università -. Dobbiamo fare uno sforzo per rispettarci a vicenda. Non siamo in contrapposizione, possiamo arricchirci a vicenda. Certi cambiamenti non avvengono in un giorno, ma dobbiamo provarci". "Gli eventi in Iraq - ha detto ancora Obama che all'inizio del discorso ha citato anche il colonialismo, la guerra fredda e la globalizzazione come cause di divisione dell'Islam e dell'Occidente - hanno ricordato all'America la necessità di usare la diplomazia e creare consenso internazionale per risolvere i nostri problemi ogni volta che è possibile".

"NIENTE STEREOTIPI" - Obama ha poi sottolineato la necessità di superare gli stereotipi: quelli dell'Occidente nei confronti dell'Islam, ma anche quelli nei confronti dell'America. "Perché siamo una società che nasce dalla ribellione ad un impero - ha detto il presidente Usa -, una nazione in cui tutti hanno la possibilità di realizzare se stessi. C'è un pezzo di mondo musulmano in America e noi abbiamo sempre fatto di tutto per difenderne le prerogative e i diritti. In ognuno dei nostri Stati, ad esempio, c'è una moschea".

AFGHANISTAN E IRAQ - Obama ha però messo alcuni punti fermi. Ad esempio la lotta al terrorismo, giudicata inevitabile. E la netta distinzione tra la caccia agli estremismi e una guerra all'Islam che non c'è. L'intervento militare in Afghanistan, ha detto, è stato inevitabile. Diversamente quello in Iraq, "che è stata una scelta" e che "è stato contestato anche nel nostro Paese". E' molto meglio oggi la vita senza Saddam Hussein, ha sottolineato Obama, ma ha anche ribadito la necessità di un Iraq libero che vada avanti con le proprie gambe e per questo gli Usa ritireranno tutte le truppe entro il 2012, senza lasciare nel Paese alcuna base militare.

"LA QUESTIONE PALESTINESE" - Obama ha poi parlato della necessità di superare la violenza del conflitto mediorientale. Israele, ha detto il capo della Casa Bianca, deve accettare l'esistenza di uno stato palestinese e viceversa Hamas deve riconoscere l'esistenza di Israele. "Ci sono già state troppe lacrime" ha detto Obama. Il presidente Usa ha poi contestato apertamente, in un passaggio sottolineato dagli applausi, la necessità che Gerusalemme interrompa la politica degli insediamenti. E ha ricordato le difficoltà della vita nei campi profughi e nelle zone occupate dall'esercito israeliano. Ma ha esortato i palestinesi ad interrompere da subito la violenza: "Lanciare razzi che uccidono bambini che dormono o donne che salgono su un autobus non è segno di potere". Insomma, la soluzione che prevede due Stati per due popoli e "l'unica soluzione".

"SI' AL NUCLEARE PACIFICO" - Obama ha anche detto che nessuna nazione dovrebbe interferire sulle scelte energetiche degli altri. "L'Iran - ha precisato - dovrebbe avere accesso al nucleare pacifico, ma deve aderire al Trattato di non-proliferazione". Il confronto sul controverso programma nucleare iraniano è in ogni caso "a una svolta decisiva". Washington, ha spiegato Obama, è pronta ad "andar avanti senza condizioni preliminari". Un approccio che aiuterà a prevenire una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente. Ma la Casa Bianca, ha chiarito il presidente, procederà al contempo con coraggio, rettitudine e risolutezza nei confronti della repubblica islamica. Obama ha riconosciuto il ruolo degli Stati Uniti lo scorso secolo nella destituzione del governo iraniano democraticamente eletto e che sarà difficile superare decenni di sfiducia.

RELIGIONE E DIRITTI DELLE DONNE - Tra gli altri punti toccati dal capo della Casa Bianca, vi sono la necessità di lavorare per una sempre maggiore estensione dei diritti civili e per la parità tra uomo e donna, per la libertà religiosa in ogni parte del mondo e per fare sì che lo sviluppo economico e la globalizzazione creino opportunità ovunque, e non siano al contrario causa di problemi.

LA VISITA LAMPO - La capitale egiziana è stata blindata per l'arrivo di Obama, che vi si trattiene soltanto fino al primo pomeriggio. Nel corso della sua permanenza in Egitto, prima dell'intervento all'università, il presidente americano ha avuto modo anche di incontrare per un faccia a faccia a porte chiuse il presidente egiziano Hosni Mubarak e per una visita alla moschea del sultano Hassan, all’università e alle piramidi. In serata il presidente statunitense lascerà il Medio-Oriente per raggiungere l’Europa. Nella giornata di venerdì visiterà il campo di concentramento di Buchenwald, in Germania, e sabato parteciperà al 65esimo anniversario dello sbarco in Normandia delle forze alleate contro la Germania nazista.

04 giugno 2009

 

il messaggio al mondo musulmano del presidente degli Stati Uniti

Il discorso di Obama al Cairo

Il testo integrale nella versione originale in inglese

MILANO - Ecco il testo del discorso tenuto dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama al Cairo.

I am honored to be in the timeless city of Cairo, and to be hosted by two remarkable institutions. For over a thousand years, Al-Azhar has stood as a beacon of Islamic learning, and for over a century, Cairo University has been a source of Egypt's advancement. Together, you represent the harmony between tradition and progress. I am grateful for your hospitality, and the hospitality of the people of Egypt. I am also proud to carry with me the goodwill of the American people, and a greeting of peace from Muslim communities in my country: assalaamu alaykum.

"We meet at a time of tension between the United States and Muslims around the world – tension rooted in historical forces that go beyond any current policy debate. The relationship between Islam and the West includes centuries of co-existence and cooperation, but also conflict and religious wars. More recently, tension has been fed by colonialism that denied rights and opportunities to many Muslims, and a Cold War in which Muslim-majority countries were too often treated as proxies without regard to their own aspirations.

Moreover, the sweeping change brought by modernity and globalization led many Muslims to view the West as hostile to the traditions of Islam. Violent extremists have exploited these tensions in a small but potent minority of Muslims. The attacks of September 11th, 2001 and the continued efforts of these extremists to engage in violence against civilians has led some in my country to view Islam as inevitably hostile not only to America and Western countries, but also to human rights. This has bred more fear and mistrust. So long as our relationship is defined by our differences, we will empower those who sow hatred rather than peace, and who promote conflict rather than the cooperation that can help all of our people achieve justice and prosperity. This cycle of suspicion and discord must end. I have come here to seek a new beginning between the United States and Muslims around the world; one based upon mutual interest and mutual respect; and one based upon the truth that America and Islam are not exclusive, and need not be in competition. Instead, they overlap, and share common principles – principles of justice and progress; tolerance and the dignity of all human beings. I do so recognizing that change cannot happen overnight. No single speech can eradicate years of mistrust, nor can I answer in the time that I have all the complex questions that brought us to this point. But I am convinced that in order to move forward, we must say openly the things we hold in our hearts, and that too often are said only behind closed doors. There must be a sustained effort to listen to each other; to learn from each other; to respect one another; and to seek common ground.

As the Holy Koran tells us, "Be conscious of God and speak always the truth." That is what I will try to do – to speak the truth as best I can, humbled by the task before us, and firm in my belief that the interests we share as human beings are far more powerful than the forces that drive us apart. Part of this conviction is rooted in my own experience. I am a Christian, but my father came from a Kenyan family that includes generations of Muslims. As a boy, I spent several years in Indonesia and heard the call of the azaan at the break of dawn and the fall of dusk. As a young man, I worked in Chicago communities where many found dignity and peace in their Muslim faith. As a student of history, I also know civilization's debt to Islam. It was Islam – at places like Al-Azhar University – that carried the light of learning through so many centuries, paving the way for Europe's Renaissance and Enlightenment. It was innovation in Muslim communities that developed the order of algebra; our magnetic compass and tools of navigation; our mastery of pens and printing; our understanding of how disease spreads and how it can be healed. Islamic culture has given us majestic arches and soaring spires; timeless poetry and cherished music; elegant calligraphy and places of peaceful contemplation. And throughout history, Islam has demonstrated through words and deeds the possibilities of religious tolerance and racial equality.

I know, too, that Islam has always been a part of America's story. The first nation to recognize my country was Morocco. In signing the Treaty of Tripoli in 1796, our second President John Adams wrote, "The United States has in itself no character of enmity against the laws, religion or tranquility of Muslims." And since our founding, American Muslims have enriched the United States. They have fought in our wars, served in government, stood for civil rights, started businesses, taught at our Universities, excelled in our sports arenas, won Nobel Prizes, built our tallest building, and lit the Olympic Torch. And when the first Muslim-American was recently elected to Congress, he took the oath to defend our Constitution using the same Holy Koran that one of our Founding Fathers – Thomas Jefferson – kept in his personal library. So I have known Islam on three continents before coming to the region where it was first revealed. That experience guides my conviction that partnership between America and Islam must be based on what Islam is, not what it isn't. And I consider it part of my responsibility as President of the United States to fight against negative stereotypes of Islam wherever they appear. But that same principle must apply to Muslim perceptions of America. Just as Muslims do not fit a crude stereotype, America is not the crude stereotype of a self-interested empire. The United States has been one of the greatest sources of progress that the world has ever known. We were born out of revolution against an empire. We were founded upon the ideal that all are created equal, and we have shed blood and struggled for centuries to give meaning to those words – within our borders, and around the world. We are shaped by every culture, drawn from every end of the Earth, and dedicated to a simple concept: E pluribus unum: "Out of many, one."

Much has been made of the fact that an African-American with the name Barack Hussein Obama could be elected President. But my personal story is not so unique. The dream of opportunity for all people has not come true for everyone in America, but its promise exists for all who come to our shores – that includes nearly seven million American Muslims in our country today who enjoy incomes and education that are higher than average. Moreover, freedom in America is indivisible from the freedom to practice one's religion. That is why there is a mosque in every state of our union, and over 1,200 mosques within our borders. That is why the U.S. government has gone to court to protect the right of women and girls to wear the hijab, and to punish those who would deny it.

Islam is a part of America. And I believe that America holds within her the truth that regardless of race, religion or station in life, all of us share common aspirations – to live in peace and security; to get an education and to work with dignity; to love our families, our communities, and our God. These things we share. This is the hope of all humanity. Of course, recognizing our common humanity is only the beginning of our task. Words alone cannot meet the needs of our people. These needs will be met only if we act boldly in the years ahead; and if we understand that the challenges we face are shared, and our failure to meet them will hurt us all. For we have learned from recent experience that when a financial system weakens in one country, prosperity is hurt everywhere. When a new flu infects one human being, all are at risk. When one nation pursues a nuclear weapon, the risk of nuclear attack rises for all nations. When violent extremists operate in one stretch of mountains, people are endangered across an ocean. And when innocents in Bosnia and Darfur are slaughtered, that is a stain on our collective conscience. That is what it means to share this world in the 21st century. That is the responsibility we have to one another as human beings. This is a difficult responsibility to embrace. For human history has often been a record of nations and tribes subjugating one another to serve their own interests. Yet in this new age, such attitudes are self-defeating. Given our interdependence, any world order that elevates one nation or group of people over another will inevitably fail. So whatever we think of the past, we must not be prisoners of it. Our problems must be dealt with through partnership; progress must be shared. That does not mean we should ignore sources of tension. Indeed, it suggests the opposite: we must face these tensions squarely.

And so in that spirit, let me speak as clearly and plainly as I can about some specific issues that I believe we must finally confront together. The first issue that we have to confront is violent extremism in all of its forms. In Ankara, I made clear that America is not – and never will be – at war with Islam. We will, however, relentlessly confront violent extremists who pose a grave threat to our security. Because we reject the same thing that people of all faiths reject: the killing of innocent men, women, and children. And it is my first duty as President to protect the American people. The situation in Afghanistan demonstrates America's goals, and our need to work together. Over seven years ago, the United States pursued al Qaeda and the Taliban with broad international support. We did not go by choice, we went because of necessity. I am aware that some question or justify the events of 9/11. But let us be clear: al Qaeda killed nearly 3,000 people on that day. The victims were innocent men, women and children from America and many other nations who had done nothing to harm anybody. And yet Al Qaeda chose to ruthlessly murder these people, claimed credit for the attack, and even now states their determination to kill on a massive scale. They have affiliates in many countries and are trying to expand their reach. These are not opinions to be debated; these are facts to be dealt with. Make no mistake: we do not want to keep our troops in Afghanistan. We seek no military bases there. It is agonizing for America to lose our young men and women. It is costly and politically difficult to continue this conflict. We would gladly bring every single one of our troops home if we could be confident that there were not violent extremists in Afghanistan and Pakistan determined to kill as many Americans as they possibly can. But that is not yet the case. That's why we're partnering with a coalition of forty-six countries. And despite the costs involved, America's commitment will not weaken.

Indeed, none of us should tolerate these extremists. They have killed in many countries. They have killed people of different faiths – more than any other, they have killed Muslims. Their actions are irreconcilable with the rights of human beings, the progress of nations, and with Islam. The Holy Koran teaches that whoever kills an innocent, it is as if he has killed all mankind; and whoever saves a person, it is as if he has saved all mankind. The enduring faith of over a billion people is so much bigger than the narrow hatred of a few. Islam is not part of the problem in combating violent extremism – it is an important part of promoting peace. We also know that military power alone is not going to solve the problems in Afghanistan and Pakistan. That is why we plan to invest ê1.5 billion each year over the next five years to partner with Pakistanis to build schools and hospitals, roads and businesses, and hundreds of millions to help those who have been displaced. And that is why we are providing more than ê2.8 billion to help Afghans develop their economy and deliver services that people depend upon. Let me also address the issue of Iraq. Unlike Afghanistan, Iraq was a war of choice that provoked strong differences in my country and around the world. Although I believe that the Iraqi people are ultimately better off without the tyranny of Saddam Hussein, I also believe that events in Iraq have reminded America of the need to use diplomacy and build international consensus to resolve our problems whenever possible. Indeed, we can recall the words of Thomas Jefferson, who said: "I hope that our wisdom will grow with our power, and teach us that the less we use our power the greater it will be." Today, America has a dual responsibility: to help Iraq forge a better future – and to leave Iraq to Iraqis. I have made it clear to the Iraqi people that we pursue no bases, and no claim on their territory or resources. Iraq's sovereignty is its own. That is why I ordered the removal of our combat brigades by next August. That is why we will honor our agreement with Iraq's democratically-elected government to remove combat troops from Iraqi cities by July, and to remove all our troops from Iraq by 2012.

We will help Iraq train its Security Forces and develop its economy. But we will support a secure and united Iraq as a partner, and never as a patron. And finally, just as America can never tolerate violence by extremists, we must never alter our principles. 9/11 was an enormous trauma to our country. The fear and anger that it provoked was understandable, but in some cases, it led us to act contrary to our ideals. We are taking concrete actions to change course. I have unequivocally prohibited the use of torture by the United States, and I have ordered the prison at Guantanamo Bay closed by early next year. So America will defend itself respectful of the sovereignty of nations and the rule of law. And we will do so in partnership with Muslim communities which are also threatened. The sooner the extremists are isolated and unwelcome in Muslim communities, the sooner we will all be safer. The second major source of tension that we need to discuss is the situation between Israelis, Palestinians and the Arab world. America's strong bonds with Israel are well known. This bond is unbreakable. It is based upon cultural and historical ties, and the recognition that the aspiration for a Jewish homeland is rooted in a tragic history that cannot be denied.

Around the world the Jewish people were persecuted for centuries, and anti-semitism in Europe culminated in unprecedented holocaust. Tomorrow I will visit Buchenwald, which was part of a network of camps where Jews were enslaved, tortured, shot and gassed to death by the Third Reich. Six million Jews were killed – more than the entire Jewish population of Israel today. Denying that fact is baseless, ignorant, and hateful. Threatening Israel with destruction – or repeating vile stereotypes about Jews – is deeply wrong, and only serves to evoke in the minds of Israelis this most painful of memories while preventing the peace that the people of this region deserve. On the other hand, it is also undeniable that the Palestinian people – Muslims and Christians – have suffered in pursuit of a homeland. For more than sixty years they have endured the pain of dislocation. Many wait in refugee camps in the West Bank, Gaza, and neighboring lands for a life of peace and security that they have never been able to lead. They endure the daily humiliations – large and small – that come with occupation. So let there be no doubt: the situation for the Palestinian people is intolerable. America will not turn our backs on the legitimate Palestinian aspiration for dignity, opportunity, and a state of their own. For decades, there has been a stalemate: two peoples with legitimate aspirations, each with a painful history that makes compromise elusive. It is easy to point fingers – for Palestinians to point to the displacement brought by Israel's founding, and for Israelis to point to the constant hostility and attacks throughout its history from within its borders as well as beyond.

But if we see this conflict only from one side or the other, then we will be blind to the truth: the only resolution is for the aspirations of both sides to be met through two states, where Israelis and Palestinians each live in peace and security. That is in Israel's interest, Palestine's interest, America's interest, and the world's interest. That is why I intend to personally pursue this outcome with all the patience that the task requires. The obligations that the parties have agreed to under the Road Map are clear. For peace to come, it is time for them – and all of us – to live up to our responsibilities. Palestinians must abandon violence. Resistance through violence and killing is wrong and does not succeed. For centuries, black people in America suffered the lash of the whip as slaves and the humiliation of segregation. But it was not violence that won full and equal rights. It was a peaceful and determined insistence upon the ideals at the center of America's founding. This same story can be told by people from South Africa to South Asia; from Eastern Europe to Indonesia. It's a story with a simple truth: that violence is a dead end. It is a sign of neither courage nor power to shoot rockets at sleeping children, or to blow up old women on a bus. That is not how moral authority is claimed; that is how it is surrendered.

Now is the time for Palestinians to focus on what they can build. The Palestinian Authority must develop its capacity to govern, with institutions that serve the needs of its people. Hamas does have support among some Palestinians, but they also have responsibilities. To play a role in fulfilling Palestinian aspirations, and to unify the Palestinian people, Hamas must put an end to violence, recognize past agreements, and recognize Israel's right to exist. At the same time, Israelis must acknowledge that just as Israel's right to exist cannot be denied, neither can Palestine's. The United States does not accept the legitimacy of continued Israeli settlements. This construction violates previous agreements and undermines efforts to achieve peace. It is time for these settlements to stop. Israel must also live up to its obligations to ensure that Palestinians can live, and work, and develop their society. And just as it devastates Palestinian families, the continuing humanitarian crisis in Gaza does not serve Israel's security; neither does the continuing lack of opportunity in the West Bank. Progress in the daily lives of the Palestinian people must be part of a road to peace, and Israel must take concrete steps to enable such progress.

Finally, the Arab States must recognize that the Arab Peace Initiative was an important beginning, but not the end of their responsibilities. The Arab-Israeli conflict should no longer be used to distract the people of Arab nations from other problems. Instead, it must be a cause for action to help the Palestinian people develop the institutions that will sustain their state; to recognize Israel's legitimacy; and to choose progress over a self-defeating focus on the past. America will align our policies with those who pursue peace, and say in public what we say in private to Israelis and Palestinians and Arabs. We cannot impose peace. But privately, many Muslims recognize that Israel will not go away. Likewise, many Israelis recognize the need for a Palestinian state. It is time for us to act on what everyone knows to be true. Too many tears have flowed. Too much blood has been shed. All of us have a responsibility to work for the day when the mothers of Israelis and Palestinians can see their children grow up without fear; when the Holy Land of three great faiths is the place of peace that God intended it to be; when Jerusalem is a secure and lasting home for Jews and Christians and Muslims, and a place for all of the children of Abraham to mingle peacefully together as in the story of Isra, when Moses, Jesus, and Mohammed (peace be upon them) joined in prayer. The third source of tension is our shared interest in the rights and responsibilities of nations on nuclear weapons. This issue has been a source of tension between the United States and the Islamic Republic of Iran.

For many years, Iran has defined itself in part by its opposition to my country, and there is indeed a tumultuous history between us. In the middle of the Cold War, the United States played a role in the overthrow of a democratically-elected Iranian government. Since the Islamic Revolution, Iran has played a role in acts of hostage-taking and violence against U.S. troops and civilians. This history is well known. Rather than remain trapped in the past, I have made it clear to Iran's leaders and people that my country is prepared to move forward. The question, now, is not what Iran is against, but rather what future it wants to build. It will be hard to overcome decades of mistrust, but we will proceed with courage, rectitude and resolve. There will be many issues to discuss between our two countries, and we are willing to move forward without preconditions on the basis of mutual respect. But it is clear to all concerned that when it comes to nuclear weapons, we have reached a decisive point. This is not simply about America's interests. It is about preventing a nuclear arms race in the Middle East that could lead this region and the world down a hugely dangerous path. I understand those who protest that some countries have weapons that others do not. No single nation should pick and choose which nations hold nuclear weapons. That is why I strongly reaffirmed America's commitment to seek a world in which no nations hold nuclear weapons. And any nation – including Iran – should have the right to access peaceful nuclear power if it complies with its responsibilities under the nuclear Non-Proliferation Treaty. That commitment is at the core of the Treaty, and it must be kept for all who fully abide by it. And I am hopeful that all countries in the region can share in this goal.

The fourth issue that I will address is democracy. I know there has been controversy about the promotion of democracy in recent years and much of this controversy is connected to the war in Iraq. So let me be clear: no system of government can or should be imposed upon one nation by any other. That does not lessen my commitment, however, to governments that reflect the will of the people. Each nation gives life to this principle in its own way, grounded in the traditions of its own people. America does not presume to know what is best for everyone, just as we would not presume to pick the outcome of a peaceful election. But I do have an unyielding belief that all people yearn for certain things: the ability to speak your mind and have a say in how you are governed; confidence in the rule of law and the equal administration of justice; government that is transparent and doesn't steal from the people; the freedom to live as you choose. Those are not just American ideas, they are human rights, and that is why we will support them everywhere. There is no straight line to realize this promise. But this much is clear: governments that protect these rights are ultimately more stable, successful and secure. Suppressing ideas never succeeds in making them go away.

America respects the right of all peaceful and law-abiding voices to be heard around the world, even if we disagree with them. And we will welcome all elected, peaceful governments – provided they govern with respect for all their people. This last point is important because there are some who advocate for democracy only when they are out of power; once in power, they are ruthless in suppressing the rights of others. No matter where it takes hold, government of the people and by the people sets a single standard for all who hold power: you must maintain your power through consent, not coercion; you must respect the rights of minorities, and participate with a spirit of tolerance and compromise; you must place the interests of your people and the legitimate workings of the political process above your party. Without these ingredients, elections alone do not make true democracy.

The fifth issue that we must address together is religious freedom. Islam has a proud tradition of tolerance. We see it in the history of Andalusia and Cordoba during the Inquisition. I saw it firsthand as a child in Indonesia, where devout Christians worshiped freely in an overwhelmingly Muslim country. That is the spirit we need today. People in every country should be free to choose and live their faith based upon the persuasion of the mind, heart, and soul. This tolerance is essential for religion to thrive, but it is being challenged in many different ways. Among some Muslims, there is a disturbing tendency to measure one's own faith by the rejection of another's. The richness of religious diversity must be upheld – whether it is for Maronites in Lebanon or the Copts in Egypt. And fault lines must be closed among Muslims as well, as the divisions between Sunni and Shia have led to tragic violence, particularly in Iraq. Freedom of religion is central to the ability of peoples to live together. We must always examine the ways in which we protect it. For instance, in the United States, rules on charitable giving have made it harder for Muslims to fulfill their religious obligation. That is why I am committed to working with American Muslims to ensure that they can fulfill zakat. Likewise, it is important for Western countries to avoid impeding Muslim citizens from practicing religion as they see fit – for instance, by dictating what clothes a Muslim woman should wear. We cannot disguise hostility towards any religion behind the pretence of liberalism. Indeed, faith should bring us together. That is why we are forging service projects in America that bring together Christians, Muslims, and Jews. That is why we welcome efforts like Saudi Arabian King Abdullah's Interfaith dialogue and Turkey's leadership in the Alliance of Civilizations. Around the world, we can turn dialogue into Interfaith service, so bridges between peoples lead to action – whether it is combating malaria in Africa, or providing relief after a natural disaster.

The sixth issue that I want to address is women's rights. I know there is debate about this issue. I reject the view of some in the West that a woman who chooses to cover her hair is somehow less equal, but I do believe that a woman who is denied an education is denied equality. And it is no coincidence that countries where women are well-educated are far more likely to be prosperous. Now let me be clear: issues of women's equality are by no means simply an issue for Islam. In Turkey, Pakistan, Bangladesh and Indonesia, we have seen Muslim-majority countries elect a woman to lead. Meanwhile, the struggle for women's equality continues in many aspects of American life, and in countries around the world. Our daughters can contribute just as much to society as our sons, and our common prosperity will be advanced by allowing all humanity – men and women – to reach their full potential. I do not believe that women must make the same choices as men in order to be equal, and I respect those women who choose to live their lives in traditional roles. But it should be their choice. That is why the United States will partner with any Muslim-majority country to support expanded literacy for girls, and to help young women pursue employment through micro-financing that helps people live their dreams. Finally, I want to discuss economic development and opportunity. I know that for many, the face of globalization is contradictory. The Internet and television can bring knowledge and information, but also offensive sexuality and mindless violence. Trade can bring new wealth and opportunities, but also huge disruptions and changing communities. In all nations – including my own – this change can bring fear. Fear that because of modernity we will lose of control over our economic choices, our politics, and most importantly our identities – those things we most cherish about our communities, our families, our traditions, and our faith.

But I also know that human progress cannot be denied. There need not be contradiction between development and tradition. Countries like Japan and South Korea grew their economies while maintaining distinct cultures. The same is true for the astonishing progress within Muslim-majority countries from Kuala Lumpur to Dubai. In ancient times and in our times, Muslim communities have been at the forefront of innovation and education. This is important because no development strategy can be based only upon what comes out of the ground, nor can it be sustained while young people are out of work. Many Gulf States have enjoyed great wealth as a consequence of oil, and some are beginning to focus it on broader development. But all of us must recognize that education and innovation will be the currency of the 21st century, and in too many Muslim communities there remains underinvestment in these areas. I am emphasizing such investments within my country. And while America in the past has focused on oil and gas in this part of the world, we now seek a broader engagement. On education, we will expand exchange programs, and increase scholarships, like the one that brought my father to America, while encouraging more Americans to study in Muslim communities. And we will match promising Muslim students with internships in America; invest in on-line learning for teachers and children around the world; and create a new online network, so a teenager in Kansas can communicate instantly with a teenager in Cairo. On economic development, we will create a new corps of business volunteers to partner with counterparts in Muslim-majority countries. And I will host a Summit on Entrepreneurship this year to identify how we can deepen ties between business leaders, foundations and social entrepreneurs in the United States and Muslim communities around the world. On science and technology, we will launch a new fund to support technological development in Muslim-majority countries, and to help transfer ideas to the marketplace so they can create jobs. We will open centers of scientific excellence in Africa, the Middle East and Southeast Asia, and appoint new Science Envoys to collaborate on programs that develop new sources of energy, create green jobs, digitize records, clean water, and grow new crops. And today I am announcing a new global effort with the Organization of the Islamic Conference to eradicate polio. And we will also expand partnerships with Muslim communities to promote child and maternal health. All these things must be done in partnership. Americans are ready to join with citizens and governments; community organizations, religious leaders, and businesses in Muslim communities around the world to help our people pursue a better life.

The issues that I have described will not be easy to address. But we have a responsibility to join together on behalf of the world we seek – a world where extremists no longer threaten our people, and American troops have come home; a world where Israelis and Palestinians are each secure in a state of their own, and nuclear energy is used for peaceful purposes; a world where governments serve their citizens, and the rights of all God's children are respected. Those are mutual interests. That is the world we seek. But we can only achieve it together. I know there are many – Muslim and non-Muslim – who question whether we can forge this new beginning. Some are eager to stoke the flames of division, and to stand in the way of progress. Some suggest that it isn't worth the effort – that we are fated to disagree, and civilizations are doomed to clash. Many more are simply skeptical that real change can occur. There is so much fear, so much mistrust. But if we choose to be bound by the past, we will never move forward. And I want to particularly say this to young people of every faith, in every country – you, more than anyone, have the ability to remake this world. All of us share this world for but a brief moment in time. The question is whether we spend that time focused on what pushes us apart, or whether we commit ourselves to an effort – a sustained effort – to find common ground, to focus on the future we seek for our children, and to respect the dignity of all human beings. It is easier to start wars than to end them. It is easier to blame others than to look inward; to see what is different about someone than to find the things we share. But we should choose the right path, not just the easy path. There is also one rule that lies at the heart of every religion – that we do unto others as we would have them do unto us. This truth transcends nations and peoples – a belief that isn't new; that isn't black or white or brown; that isn't Christian, or Muslim or Jew. It's a belief that pulsed in the cradle of civilization, and that still beats in the heart of billions. It's a faith in other people, and it's what brought me here today.

We have the power to make the world we seek, but only if we have the courage to make a new beginning, keeping in mind what has been written. The Holy Koran tells us, "O mankind! We have created you male and a female; and we have made you into nations and tribes so that you may know one another." The Talmud tells us: "The whole of the Torah is for the purpose of promoting peace." The Holy Bible tells us, "Blessed are the peacemakers, for they shall be called sons of God." The people of the world can live together in peace. We know that is God's vision. Now, that must be our work here on Earth. Thank you. And may God's peace be upon you.

04 giugno 2009

 

 

Capitale egiziana blindatissima. Poi da venerdì il capo della Casa Bianca sarà in Europa

Obama al Cairo per far pace con l'Islam

Atteso il discorso di riconciliazione tra Usa e mondo musulmano. Obiettivo: ribaltare la politica di Bush

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VIDEO: Obama in Egitto

MILANO - E' il gran giorno del discorso di Barack Obama sul Medio Oriente. Il presidente americano ha lasciato in mattinata la capitale dell'Arabia Saudita, Riad, e si è recato al Cairo dove prenderà la parola, nel palazzo dell'università appositamente rimesso a nuovo, per un intervento destinato, secondo molti osservatori, a tracciare nuove prospettive nei rapporti tra gli Usa e il mondo musulmano.

RILANCIO DEL DIALOGO - Se l’annuncio di un piano particolareggiato per finirla col conflitto israelo-palestinese è improbabile, Obama dovrebbe presentarsi con un forte messaggio di riconciliazione per voltare la pagina dell’era Bush. Provenendo dall’Arabia Saudita, altro paese alleato chiave degli Stati Uniti e culla dell’Islam, si intratterrà in Egitto per una visita lampo ma altamente simbolica di sette ore. Dopo aver proclamato in Turchia che gli Stati Uniti "non sono e non saranno mai in guerra contro l’Islam", Obama ha scelto l’Egitto, dove vive un arabo su quattro, per questo discorso all’indirizzo di 1,5 miliardi di musulmani. E ha detto di voler "rimettere seriamente sui binari" il processo di pace in Medio Oriente sottolineando la necessità di una certa fermezza verso Israele sulla creazione di uno stato palestinese e sul blocco della colonizzazione ebraica.

LA VISITA LAMPO - La capitale egiziana è stata blindata e sono esclusi bagni di folla per Obama, che secondo quanto anticipato dalla stampa locale effettuerà i propri spostamenti perlopiù in elicottero. Avrà un colloquio con il presidente Hosni Mubarak, 81 anni. Dopo visite alla moschea del sultano Hassan, all’università e alle piramidi, in serata, al termine di una giornata già definita storica dagli egiziani, il presidente statunitense lascerà il Medio-Oriente per raggiungere l’Europa. Nella giornata di venerdì visiterà il campo di concentramento di Buchenwald, in Germania, e sabato parteciperà al 65esimo anniversario dello sbarco in Normandia delle forze alleate contro la Germania nazista.

04 giugno 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitale egiziana blindatissima. Poi da venerdì il capo della Casa Bianca sarà in Europa

Obama al Cairo per far pace con l'Islam

Atteso il discorso di riconciliazione tra Usa e mondo musulmano. Obiettivo: ribaltare la politica di Bush

Il presidente americano, Barack Obama, a Riad con re Abdullah (Ansa)

Il presidente americano, Barack Obama, a Riad con re Abdullah (Ansa)

MILANO - E' il gran giorno del discorso di Barack Obama sul Medio Oriente. Il presidente americano ha lasciato in mattinata la capitale dell'Arabia Saudita, Riad, per recarsi al Cairo dove prenderà la parola per un intervento destinato, secondo molti osservatori, a tracciare nuove prospettive nei rapporti tra gli Usa e il mondo musulmano.

RILANCIO DEL DIALOGO - Se l’annuncio di un piano particolareggiato per finirla col conflitto israelo-palestinese è improbabile, Obama dovrebbe presentarsi con un forte messaggio di riconciliazione per voltare la pagina dell’era Bush. Provenendo dall’Arabia Saudita, altro paese alleato chiave degli Stati Uniti e culla dell’Islam, si intratterrà in Egitto per una visita lampo ma altamente simbolica di sette ore. Dopo aver proclamato in Turchia che gli Stati Uniti "non sono e non saranno mai in guerra contro l’Islam", Obama ha scelto l’Egitto, dove vive un arabo su quattro, per questo discorso all’indirizzo di 1,5 miliardi di musulmani. E ha detto di voler "rimettere seriamente sui binari" il processo di pace in Medio Oriente sottolineando la necessità di una certa fermezza verso Israele sulla creazione di uno stato palestinese e sul blocco della colonizzazione ebraica.

LA VISITA LAMPO - La capitale egiziana è stata blindata e sono esclusi bagni di folla per Obama, che secondo quanto anticipato dalla stampa locale dovrà spostarsi in elicottero da un punto all’altro. Avrà un colloquio con il presidente Hosni Mubarak, 81 anni. Dopo visite alla moschea del sultano Hassan, all’università e alle piramidi, in serata, al termine di una giornata già definita storica dagli egiziani, il presidente statunitense lascerà il Medio-Oriente per raggiungere l’Europa. Nella giornata di venerdì visiterà il campo di concentramento di Buchenwald, in Germania, e sabato parteciperà al 65esimo anniversario dello sbarco in Normandia delle forze alleate contro la Germania nazista.

04 giugno 2009

 

 

"La maggioranza degli islamici vede gli Usa come nemici, bisogna far cambiare loro idea"

Rispetto e cooperazione le parole chiave

Dalia Mogahed, consulente musulmana del presidente: servono scadenze, oppure non sarà credibile

Dalia Mogahed, la consulente di Obama per i rapporti con il mondo musulmano, che in Egitto è nata, ha raccomandato al presidente tre te­mi: "Rispetto, empatia e cooperazio­ne", dice al telefono da Washin­gton. Ma nota anche che contribui­re alla risoluzione di conflitti come quello tra Israele e i palestinesi è fon­damentale se gli Stati Uniti vogliono migliorare i rapporti con il mondo musulmano. E aggiunge che "sono necessarie delle scadenze, altrimen­ti il processo di dialogo perde credi­bilità".

Musulmana, velata, Mogahed ha lasciato Il Cairo a 5 anni con la fami­glia borghese. Cittadina americana, laurea in ingegneria e master in bu­siness administration, è il capo del Centro Gallup per gli Studi musul­mani. I suoi consigli a Obama sono basati sul sondaggio più ampio mai realizzato nei Paesi islamici, rappre­sentativo di un miliardo di musul­mani. Mogahed e John Esposito han­no pubblicato i risultati nel libro Who Speaks for Islam? che uscirà in Italia a ottobre (Il libro che l’Islam non ti farebbe mai leggere, Newton Compton editori). Secondo la ricerca, solo il 7% dei musulmani sono estremisti (identificati come coloro che giustificano l’11 settem­bre).

Ma anche tra la maggioranza moderata, il 60% ha una visione ne­gativa degli Usa. "Le ragioni princi­pali sono tre — dice Mogahed —: la percezione di una mancanza di ri­spetto, la rabbia per conflitti acuti come quello israelo-palestinese, le guerre in Iraq e Afghanistan, e altre come quella tra Hezbollah e Israele nel 2006 e l’ultima a Gaza, in cui vie­ne percepito un coinvolgimento di­retto o indiretto degli Usa. E infine la percezione che l’America manipo­li la realtà politica della regione. Per­ciò ho proposto al presidente di con­tinuare a dare enfasi al tema del rispetto, e poi di puntare sull’empa­tia, perché negli ultimi 8 anni i soli a mostrare comprensione per i pro­blemi della gente sono stati gli estremisti, e sul tema della coopera­zione con la comunità musulmana globale, che chiede un rapporto di uguaglianza con l’Occidente". Una cooperazione in vista di un nuovo piano di pace per il Medio Oriente? Sono il presidente e il suo team di politica estera a decidere i contenu­ti precisi del discorso, dice Mo­gahed. Il suo parere: "I discorsi crea­no uno spazio psicologico per il dia­logo, ma alimentano anche aspetta­tive che devono servire da base per azioni successive".

Re Abdallah di Giordania, con il quale la Casa Bian­ca avrebbe discusso del coinvolgi­mento nel processo di pace di 57 Stati musulmani (che dovrebbero ri­conoscere Israele), ha detto che in assenza di un piano entro un anno, il Medio Oriente rischia di cadere nelle mani degli estremisti. In effet­ti, osserva Mogahed, "sono le perce­zioni politiche e non l’ideologia reli­giosa a portare all’estremismo. La minoranza che si dice favorevole al terrorismo cita il conflitto israe­lo- palestinese per giustificarlo, ol­tre all’imperialismo americano e al desiderio di vendicarsi per le vitti­me civili. Ciò suggerisce che i cam­biamenti politici potrebbero modifi­care il loro punto di vista". La con­sulente di Obama non ha ricevuto finora solo applausi: i conservatori Usa l’hanno attaccata perché ritiene giusto dialogare con la Fratellanza musulmana (mentre crede che si debba parlare con Hamas solo dopo la rinuncia alle armi e il riconosci­mento di Israele), e in Egitto c’è chi ha obiettato che al primo posto do­vrebbe mettere l’Islam mentre lei si dichiara fedele prima di tutto agli Stati Uniti. Ma Mogahed crede fer­mamente nel dialogo, anche con l’Iran.

Viviana Mazza

04 giugno 2009

 

 

 

 

La forza del dialogo

Mai una missio­ne nel Medio Oriente di un presidente de­gli Stati Uniti aveva calami­tato tante speranze ed era stata caricata di tante aspet­tative. A Barack Obama, che in meno di 48 ore visita due soli paesi, Arabia Saudi­ta ed Egitto, tradizionali al­leati di Washington, tutti hanno qualcosa da chiede­re. Esiste poi il motivato ti­more che molti siano pron­ti a piegare le sue parole, in­dividuandovi le coordinate di sempre: più amico degli arabi e meno amico di Isra­ele, o viceversa.

Errore grave, perché Oba­ma ha già anticipato quel che dirà oggi all'università del Cairo: volontà di dialo­gare con tutti, rinuncia all' imposizione ma appello al­la condivisione di valori che sono universali, come la libertà, i diritti umani e una democrazia che, ger­mogliando su basi culturali diverse, educhi al rispetto dell'altro. Messaggio sem­plice ma assai importante, perché non è rivolto alle passioni, alle appartenen­ze, ma va diritto alle menti di tutti i protagonisti: mo­derati ed estremisti.

Parlare alla mente può essere più incisivo e deva­stante di una guerra. Quin­di non stupisce, anzi era quasi scontato che dalle ca­tacombe della ragione si al­zassero le minacce registra­te del redivivo Osama bin Laden, capo-terrorista a co­mando, contro Barack Oba­ma, appena giunto a Riad, accusato di "spargere i se­mi dell'odio". Ben sapendo che l'appello del presidente Usa punta a prosciugare le cause che, nel passato, ave­vano consentito di far lievi­tare proprio il fronte dell' odio.

Obama non è paragona­bile al filo-arabo Jimmy Car­ter, che benedisse la pace di Camp David tra Israele ed Egitto ma poi favorì il rientro in Iran di Khomei­ni, diventando alla fine la vittima politica della stessa rivoluzione degli ayatollah. Non è Bill Clinton, che pen­sava con frettolosa determi­nazione di risolvere tutti i conflitti del Medio Oriente (dagli accordi di Oslo al fal­lito vertice di Ginevra con il presidente siriano Hafez el Assad, fino al fiasco di Camp David con il premier israeliano Barak e Arafat). Non è ovviamente Bush jr. ma non somiglia neppure a Bush padre, che nel '91, per costringere Israele a parte­cipare alla conferenza di pa­ce di Madrid, non esitò a ri­correre ad un quasi-ricatto finanziario, negando le ga­ranzie su un prestito di 10 miliardi di dollari.

Al contrario, Obama pun­ta tutto sulla diplomazia: "Che - sono sue parole - ha tempi lunghi, lenti, ma si­curamente proficui. Non si possono mai avere risultati immediati". Vale per il con­gelamento degli insedia­menti, per rilanciare la for­mula dei "Due stati", nono­stante l'opposizione del pre­mier israeliano Netaniahu. Vale per l'Iran di Ahmadi­nejad e le sue ambizioni nu­cleari offensive. Che la for­za del dialogo, coniugata con la determinazione a combattere chi lo rifiuta, ri­sulti vincente si vedrà.

Ma alla richiesta dello scrittore e accademico egi­ziano Ezzedine Choukri Fishere dalle colonne di "Al Ahram weekly" ("Lei non ha bisogno di visitare moschee, di partecipare a celebrazioni esotiche, di ab­bracciare leader religiosi. Se vuole conquistare i no­stri cuori conquisti prima le nostre menti"), Barack Obama ha già risposto. E' quel che si propone di fare.

Antonio Ferrari

04 giugno 2009

 

 

 

erette dove dovrebbe nascere lo Stato palestinese, alimentano le ideologie estremiste

Colonie israeliane, vero ostacolo alla pace

L'amministrazione Usa insiste sulla necessità di bloccarle contro la teoria della "crescita demografica naturale"

Dal nostro inviato Lorenzo Cremonesi

BEIRUT - Bene fa la nuova amministrazione statunitense ad insistere sulla necessità di bloccare la crescita delle colonie israeliane in Cisgiordania. E bene ha fatto Hillary Clinton a specificare che non solo va impedito che se ne costruiscano altre, ma soprattutto va combattuto l’allargamento di quelle esistenti, nonostante il vecchio argomento israeliano della loro "crescita demografica naturale". La storia recente insegna che rappresentano un ostacolo fondamentale sulla via di qualsiasi pacificazione. E quando si sono fatti passi concreti per congelarle i negoziati arabo-israeliani hanno visto possibilità reali di successo. Non solo vengono erette su quegli stessi territori dove dovrebbe nascere lo Stato palestinese, ma alimentano le ideologie estremiste della "grande Israele". Abitava a Kiriat Arba, presso Hebron, il colono Baruch Goldstein che nel 1994 compì il massacro nella moschea-sinagoga nota come "la Tomba dei Patriarchi". Un evento che contribuì tra l’altro a fomentare l’estremismo islamico religioso e la strategia degli attentati suicidi.

MADRID E OSLO - Un anno dopo fu evidente che l’assassinio di Ytzhak Rabin per mano del fondamentalista ebreo Yigal Amir trovava il consenso proprio tra i coloni di quella zona. Le vicende degli ultimi anni sono cariche di moniti per Barack Obama in procinto di parlare al mondo arabo dal Cairo. Nel 1991 la determinazione dell’allora Segretario di Stato James Backer nel congelare una parte sostanziale dei finanziamenti Usa a Israele sino a quando non fossero state fermate le colonie condusse alla conferenza di pace a Madrid e poi ai successi degli accordi di Oslo. Ma nel 2005 si è persa una grande opportunità, quando lo smantellamento di quelle nella striscia di Gaza venne effettuato in modo del tutto unilaterale per volere di Ariel Sharon, penalizzando il Fatah del presidente palestinese Abu Mazen e premiando indirettamente invece l’estremismo di Hamas

03 giugno 2009

 

 

2009-06-03

La nuova dottrina Usa sarà annunciata al Cairo

Obama e la democrazia:

incoraggiare, non imporre

Washin­gton continuerà a incoraggiare il mondo arabo ad abbracciare i principi di democrazia e libertà

WASHINGTON — Barack Obama cerca un nuovo inizio con i Paesi musulmani. Una po­litica che eviti quelli che lui defi­nisce "i malintesi", aiuti a dif­fondere i principi di democra­zia, con gli Stati Uniti a fare da modello ma senza "imporre i propri valori". Una correzione sensibile rispetto alla dottrina Bush senza però offrire "scuse" per quanto avvenuto in passa­to. Concetti espressi ai microfo­ni della Bcc alla vigilia della mis­sione che lo vedrà oggi al Cairo e in Arabia Saudita, quindi in Europa. Un viaggio importante che ha spinto l’ideologo qaedi­sta Ayman Al Zawahiri a uscire dal "buco". Con un intervento su Internet il terrorista ha accu­sato il presidente di aver già lan­ciato "messaggi di sangue" con i recenti attacchi contro i mili­tanti a Swat (Pakistan) ed esor­tato i connazionali ad agire con­tro "il criminale".

La litania di Al Zawahiri, ol­tre a rendere più nervosi gli agenti del Secret Service, rivela il timore degli estremisti per le iniziative di Obama, ribadite ie­ri alla Bbc. "Credo che sia peri­coloso quando gli Stati Uniti o un qualsiasi altro Paese afferma­no di poter imporre i propri va­lori a Stati che hanno storia e cultura diversi", ha dichiarato aggiungendo però che Washin­gton continuerà a incoraggiare il mondo arabo ad abbracciare i principi di democrazia e libertà d’espressione. E in questa spin­ta gli americani devono diventa­re un simbolo. Ecco perché, ha sottolineato, la "chiusura di Guantanamo è tanto difficile quanto importante".

Parole che vorrebbero tranquillizzare quanti temono le intromissioni statunitensi: Obama, nell’inter­vista, si è sottratto al giudizio sui metodi anti-democratici del presidente egiziano Muba­rak, ma ha riconosciuto il suo impegno in sostegno della pa­ce. Strettamente legato a questo approccio è la gestione del dos­sier palestinese. Per questo Oba­ma ha rilanciato la soluzione dei "due Stati", in quanto è nel­l’interesse di tutti, Israele com­preso. "Vogliamo rimettere il negoziato sui binari", ha detto. Quando gli è stato chiesto una sua valutazione del no di Geru­salemme al congelamento delle colonie, il presidente ha invita­to alla "pazienza" nel cercare una soluzione diplomatica. La medesima tattica che la Casa Bianca vuole usare con l’Iran. Partendo dai segnali. Quest’anno, per la festa nazio­nale americana del 4 luglio, le ambasciate sono state autoriz­zate ad invitare diplomatici ira­niani. Un piccolo gesto ribattez­zato dai media "la politica del­l’hot dog". Poi la sostanza. "Cre­do che l’Iran abbia legittime preoccupazioni in campo ener­getico e legittime aspirazioni — ha osservato Obama —. Dal­l’altro lato però è interesse del­la comunità internazionale per­ché metta da parte le sue ambi­zioni per l’arma nucleare". Di nuovo, la risposta è un negozia­to, "duro e diretto" che possa portare, senza fissare "calenda­ri artificiali", a risultati entro "la fine dell’anno".

Guido Olimpio

03 giugno 2009

REPUBBLICA

per l'articolo completo vai al sito Internet

http://www.repubblica.it/

2009-06-04

Storico e attesissimo discorso del presidente americano all'Università del Cairo

"Non siamo in competizione, abbiamo principi comuni. Ora superare le differenze"

Obama all'Islam: "Cerchiamo un nuovo inizio

Sospetti e discordie devono finire"

Obama all'Islam: "Cerchiamo un nuovo inizio Sospetti e discordie devono finire"

IL CAIRO - "Sono qui per cercare un nuovo inizio fra gli Stati Uniti ed i musulmani nel mondo, basato sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto. E sulla verità: America e Islam non devono essere in competizione. Invece, si sovrappongono e condividono gli stessi principi, di giustizia e progresso, di tolleranza e dignità di tutti gli esseri umani". Barack Obama tende la mano agli islamici. Nell'attesissimo discorso, limato costanemente nelle ultime settimane dal presidente, pronunciato all'Università del Cairo davanti ad una folta platea, che più volte lo ha applaudito, Obama pone l'accento su ciò che unisce Stati Uniti e musulmani, dopo anni di "paura e diffidenza", che hanno invece evidenziato le differenze. E insiste sulla necessità di inaugurare una nuova era - anche se, riconosce, "non basterà un solo discorso a sradicare anni di diffidenza" - superando stereotipi negativi, da entrambe le parti. Sia sull'Islam che sugli Stati Uniti d'America: "Proprio come i musulmani non rientrano in un crudo stereotipo", dice, "lo stesso accade per l'America, che non è un impero interessato solo a sé stesso".

IL TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO IN INGLESE

Citando spesso il Corano, il presidente ha ricordato i contributi dell'Islam alla civiltà occidentale, ha sottolineato come l'Islam sia "senza dubbio parte della storia degli Stati Uniti", ha ripercorso le proprie radici familiari a partire dal suo stesso nome, Barack Hussein Obama, per poi trattare molti altri argomenti. Dall'Afghanistan all'Iraq, dal terrorismo che dev'essere isolato e combattuto insieme, al conflitto israelo-palestinese, sostenendo la necessità di due stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in pace e sicurezza. Ha parlato anche della complessa situazione mondiale e dell'Iran: anche in quest'ultimo caso, ha ricordato, "sarà difficile superare decenni di diffidenza, ma vogliamo guardare avanti invece che rimanere prigionieri del passato. Ora il punto non è ciò a cui l'Iran si oppone, ma piuttosto, che tipo di futuro vuole costruire". Questioni estremamente complesse, non certo facili da affrontare, ammette Obama. Ma si tratta di "interessi comuni, che potremo realizzare solo insieme", dice il presidente, isolando chi vuole "alimentare divisioni e impedire la via del progresso". Ecco i punti principali del discorso.

Combattere gli estremismi. "Qualsiasi cosa pensiamo del passato, non dobbiamo rimanerne prigionieri. I nostri problemi vanno affrontati in partnership, e il progresso va condiviso. Ma la prima questione da affrontare è l'estremismo violento in tutte le sue forme. L'America non è e non sarà mai in guerra con l'Islam. Tuttavia, confronteremo senza tregua gli estremisti violenti che pongono un serio rischio alla nostra sicurezza. Il mio primo compito come presidente è proteggere il popolo americano".

Afghanistan. "Non vogliamo tenere le nostre truppe in Afghanistan, non cerchiamo basi militari lì e porteremmo volentieri a casa ogni soldato se fossimo convinti che non ci siano in Afghanistan e Pakistan estremisti violenti che vogliono uccidere quanti più americani possibile. Ma così non è. Ecco perché siamo parte di una coalizione di 46 paesi. E nonostante i costi, l'impegno dell'America non si indebolirà".

Iraq. "Gli eventi in Iraq hanno ricordato all'America la necessità di usare la diplomazia e creare consenso internazionale per risolvere i nostri problemi ogni volta che è possibile. Ora l'America ha una doppia responsabilità: aiutare l'Iraq a costruire un futuro migliore e lasciare l'Iraq agli iracheni. Le nostre brigate di combattimento saranno rimosse dal Paese il prossimo agosto e rispetteremo l'accordo con il governo iracheno democraticamente eletto di ritirare tutte le truppe dall'Iraq entro il 2012".

Israele e Palestina, due stati. "I forti legami degli Stati Uniti con Israele sono noti. Questo legame è indistruttibile e l'aspirazione ad una patria per gli ebrei è radicata in una storia tragica che nessuno può negare. Al tempo stesso, è allo stesso modo innegabile che il popolo palestinese abbia sofferto nella ricerca di una patria. La situazione della gente palestinese è intollerabile. E l'America non girerà le spalle alla legittima aspirazione palestinese alla dignità, a ciò che è opportuno e ad uno stato proprio. L'unica soluzione è che l'aspiarazione di entrambe le parti sia realizzata attraverso due stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in pace e sicurezza. E' nell'interesse di Israele, della Palestina, dell'America e del mondo. I palestinesi devono abbandonare la violenza. Hamas deve riconoscere gli accordi passati ed il diritto di Israele ad esistere. Israele deve rispettare l'obbligo di permettere ai palestinesi di vivere, lavorare e sviluppare la propria società".

Iran. "Invece di rimanere intrappolati nel passato, il mio paese è pronto ad andare avanti. Il confronto sul controverso programma nucleare iraniano è a una svolta decisiva. Non riguarda solo gli interessi americani, ma si tratta di prevenire una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente che potrebbe portare la regione e il mondo intero lungo un cammino molto pericoloso. Riaffermo l'impegno dell'America per un mondo senza armi nucleari, ma ogni nazione, Iran compreso, dovrebbe avere diritto ad avere accesso al nucleare per scopi pacifici, se rispetta gli obbligli del Trattato di non proliferazione nucleare".

Democrazia. "Nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione ad un'altra. Ma questo non riduce il mio impegno per avere governi che riflettano la volontà della gente. L'America non presume di sapere ciò che è meglio per tutti, ma ho la convinzione certa che tutti i popoli desiderino alcune cose: la possibilità di poter affermare le proprie opinioni e poter avere voce su come si è governati. La fiducia in una legge uguale per tutti e in una giusta amministrazione, un governo trasparente, che non si approfitti della cittadinza, che sia onesto, e la libertà per ciascuno di scegliere la vita e lo stile di vita che preferisce queste non sono idee americane, ma diritti umani di base, che sosterremmo e per cui combatteremo ovunque".

(4 giugno 2009)

 

 

 

 

Critiche e apprezzamenti al discorso del presidente Usa al Cairo

Iran contraria. Anp parla di "un discorso storico per il luogo e il momento"

Hamas apre al dialogo con Obama

Bin Laden insiste: "Guerra agli infedeli"

Hamas apre al dialogo con Obama Bin Laden insiste: "Guerra agli infedeli"

IL CAIRO - Il mondo islamico sembra apprezzare il discorso di Barack Obama al Cairo anche se le prime reazioni arrivano dalle frange più estremiste. Mentre Osama Bin Laden continua nei suoi proclami di guerra "contro gli infedeli" e l'Iran si affianca, sostenendo che "non basteranno cento discorsi a cambiare l'immagine degli Usa nel mondo musulmano", un'apertura importante viene da Hamas. Ancora più disponibile l'Anp che definisce l'intervento del presidente Usa un discorso "storico per il posto, il momento e il contenuto".

Messaggio di Bin Laden sul web. Osama Bin Laden mette in guardia i musulmani dall'allearsi con cristiani ed ebrei, un'alleanza "che annulla la fede musulmana". Il monito è contenuto nel testo integrale del messaggio alcuni estratti del quale erano stati resi noti ieri da al Jazeera. La pubblicazione su un sito islamico dell'audio, che dura complessivamente 25 minuti, è giunta in contemporanea al discorso del presidente Usa al Cairo. Bin Laden ha fatto appello ai musulmani perché "combattano gli alleati degli infedeli".

Hamas, pronti a dialogo. Il movimento palestinese vede nel discorso di Obama segnali di "discontinuità rispetto alla politica del suo predecessore George W. Bush". Lo ha detto all'Ansa Taher Nunu, portavoce del governo di fatto del movimento islamico radicale palestinese al potere nella Striscia di Gaza. Ciò che Obama ha detto "in termini generali sul conflitto (israelo-palestinese) sembra mostrare discontinuità rispetto alla politica" di Bush, ha detto Nunu. In ogni caso, "noi speriamo che sia l'inizio di un cambiamento basilare, visto che gli americani sembrano aver compreso il fallimento della politica di Bush", ha aggiunto Nunu. Quanto al riferimento del presidente americano alla necessità che gli israeliani alleggeriscano il blocco attorno ai confini della Striscia di Gaza, il portavoce di Hamas si è augurato che Israele lo ascolti e "agisca di conseguenza". Interpellato infine sul forte richiamo di Obama contro l'uso della violenza da parte dei palestinesi, Nunu ha risposto: "Hamas non vuole praticare la violenza, ma rivendica il diritto legale alla resistenza all'occupazione".

Anp, discorso storico. Un discorso "storico per il posto, il momento e il contenuto" è il giudizio di Nimer Hamad, consigliere per la stampa del presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) al discorso di Obama. Interpellato dall'Ansa, Hamad ha detto che Obama ha scelto "la linea del dialogo invece di quella del confronto usata dalla precedente amministrazione (del presidente George W.)

Bush". "Obama - ha continuato Hamad - è stato chiaro nel ribadire la necessità di due stati per risolvere il conflitto israelo-palestinese, nell'affermare che la colonizzazione deve cessare e nel ricordare le quotidiane sofferenza della popolazione palestinese sotto l'occupazione israeliana".

L'Iran. Dall'Iran però è arrivata la doccia fredda di uno dei maggiori leader, la Guida della rivoluzione iraniana Ali Khamenei: "Non basteranno cento discorsi a cambiare l'immagine degli Usa nel mondo musulmano", ha detto. "In questa regione i popoli odiano profondamente le amministrazioni americane" per la politica seguita, ha affermato Khamenei, mentre dalla folla si alzava ripetutamente lo slogan di "Morte all'America".

(4 giugno 2009)

 

 

 

 

 

 

 

Obama al Cairo, storico discorso all'Islam

"Ci ha lavorato fino all'ultimo minuto"

Obama al Cairo, storico discorso all'Islam "Ci ha lavorato fino all'ultimo minuto"

IL CAIRO - Il presidente statunitense Barack Obama è arrivato al Cairo, tappa principale del suo viaggio oltreoceano che lo porterà, dopo il Medio Oriente, alle celebrazioni per il D-day in Europa. Tappa attesissima, quella del Cairo, perché qui questa mattina il presidente Usa pronuncerà all'Università del Cairo l'attesissimo discorso al mondo islamico.

Obama ha lavorato sino all'ultimo momento al testo del discorso sul dialogo col mondo musulmano che pronuncerà oggi all'Università del Cairo. La Casa Bianca ha rivelato che Obama, che ha cominciato a scrivere il discorso alcuni mesi fa, ha dato gli ultimi ritocchi al testo ieri notte mentre era ospite a Riad nella tenuta del sovrano saudita Abdullah.

Obama, per mettere a punto il discorso, ha consultato numerosi esponenti musulmani d'America e di altri Paesi cercando di comprendere il loro punto di vista sui rapporti tra Islam e Stati Uniti. Il presidente ha dedicato molto tempo a rivedere il discorso negli ultimi sette giorni ed ha lavorato al testo anche durante il volo sull'Air Force One da Washington a Riad.

Il messaggio al mondo musulmano, col proposito dichiarato di riaprire il dialogo con l'America, è una promessa della campagna elettorale di Obama.

"Farò questo discorso da un capitale del mondo musulmano", aveva promesso. La sua scelta è caduta su Il Cairo, tappa centrale di questo viaggio del presidente Usa in Medio Oriente e in Europa (si recherà in Germania e in Francia).

(4 giugno 2009) Tutti gli articoli di esteri

 

 

 

 

IL COMMENTO

Obama, il linguaggio del cuore

di VITTORIO ZUCCONI

Nelle terre del "libro", dunque nella culla del Verbo, il nuovo presidente americano si affida proprio alla forza della parola per fare quello che nessuno prima di lui è riuscito a fare, toccare i cuori e le menti del mondo arabo.

È ovvio dire che dopo otto anni di Bush, mentre sono ancora in corso due guerre d'occupazione in nazioni musulmane, la sua impresa è proibitiva, e che le aspettative per il suo discorso in quella università del Cairo da mille anni centro del mondo sunnita, sono troppo grandi perché non producano delusioni. Già la voce spettrale di Osama bin Laden si è alzata per svuotare ed esorcizzare la sua presenza in Egitto, segnando le sue controparole di condanna e di odio con l'assassinio rituale di un diplomatico inglese rapito in Mali, e avvertendo che "l'America raccoglierà i frutti dell'odio che semina". Ci sono quasi 100 anni di storia, dalla dichiarazione di lord Balfour che fece la prima spartizione arbitraria e insensata della regione nel 1916 a dimostrare che nessuno ha mai trovato - o voluto trovare - la chiave per aprire la porta della pace. Chi osò farlo, come Ytzhak Rabin o Anwar Sadat proprio al Cairo, pagò con la propria vita.

Ma nessuno prima di questo presidente americano aveva portato nella terra del Verbo e del Libro la novità preoccupante di una persona e di una storia che sta, come dimostra la bordata preventiva lanciata da una preoccupatissima al Qaeda in ben due messaggi, sparigliando le carte dei luoghi comuni. Un capo di stato occidentale e genericamente "cristiano" con il suo viso, con un nome come Hussein, la "piazza araba" non lo aveva mai visto. E su questo lui apertamente punta, ostentando in tutte le interviste e le dichiarazioni quei legami familiari con il mondo islamico e quel nome, che durante la campagna elettorale aveva cercato di minimizzare o nascondere.

Così sensazionale è la novità dell'uomo che parla un linguaggio diverso prima ancora di aprire bocca, che persino il teorico più arcigno della missione provvidenziale della forza americana, Paul Wolfowitz, ha dovuto riconoscere che "la maggioranza nel mondo musulmano riconosce il risultato che lui rappresenta". Una maggioranza che non si traduce ancora in un atteggiamento diverso nei confronti degli Stati Uniti, visti da tre quarti dei musulmani come un avversario, se non come il demonio che insidia l'esistenza stessa della cultura dell'Islam.

Qui sta la parte più facile di questa "missione della parola" che Barack cercherà di compiere oggi nell'università di al-Azhar al Cairo semplicemente usando un linguaggio diverso e dicendo ciò che anche Bush ripeteva nei discorsi, ma smentiva nelle azioni. Il suo sarà un cambio culturale, prima che politico, e un ritorno al pensiero, prima dell'azione. L'America non è la nemica dell'Islam; ogni disarmo verbale e culturale deve partire dall'affermazione del reciproco rispetto; il concetto stesso di "scontro di civiltà" è un nonsenso ideologico perché presuppone l'esistenza di due inconciliabili monoliti da un miliardo di cloni per parte.

In questo, la missione sarà un successo, ma non potrà essere un successo troppo grande perché il rischio che correrà il presidente non è quello di non essere preso sul serio. È quello di essere semmai preso troppo sul serio e quindi chiamato a tradurre in pratica il verbo e il messaggio nei confronti di quei regimi arabi che sono lo strumento di oppressione e di arretratezza che alimenta la fuga verso fondamentalismo religioso. Ci saranno infatti due pubblici arabi opposti che lo ascolteranno: quello delle strade, che rispondono disciplinatamente alle tv di stato che la questione palestinese è la ferita che li offende. Ma che, se fossero padroni di rispondere, come disse il direttore della network al-Arabya, direbbero invece che sono la loro vita quotidiana, il futuro dei figli, la loro condizione frustrante a essere in cima alle preoccupazioni. E ci saranno le orecchie tese dei governanti, dalla Siria all'Egitto, dall'Arabia Saudita all'Iran alla Libia, che vivono nel timore proprio di quella piazza araba, tenuta al guinzaglio corto e zittita.

Il vero problema impossibile di Obama non è, non ancora, il negoziato fra Israele e i palestinesi. È quello di rassicurare i despoti arabi dei quali ha bisogno, accendendo contemporaneamente l'entusiasmo e la fiducia delle piazze per questa nuova America. Dunque accendere il fuoco della speranza sotto la pentola senza far saltare il coperchio dei regimi dei quali ha bisogno, per le trattative con Israele e per il petrolio. Tutto sotto lo sguardo degli americani, a casa - il suo terzo pubblico e alla fine quello principale - che non amano l'idea di un presidente troppo filo islamico. Tre miracoli contraddittori fra loro, che soltanto un uomo dotato di enorme fede nel proprio verbo può sperare di compiere.

(4 giugno 2009) Tutti gli articoli di esteri

 

 

 

 

 

 

Nuovo audio trasmesso da Al Jazeera all'arrivo del presidente

americano a Riad, prima tappa del viaggio nel mondo arabo

Bin Laden accusa Obama

"Stessa politica di Bush"

La prima reazione Usa: "Vogliono distrarre dalla visita in M.O"

Bin Laden accusa Obama "Stessa politica di Bush"

Barack Obama accolto a Riad dal sovrano saudita re Abdullah

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Multimedia

* VIDEO, LE MINACCE DI AL ZAWAHIRI

IL CAIRO - Barack Obama "adotta la stessa politica di George Bush" e "lui e la sua amministrazione hanno gettato altri semi per aumentare l'odio e la vendetta contro gli Stati Uniti". L'accusa arriva da Osama Bin Laden, in un nuovo messaggio audio diffuso da Al Jazeera in apertura del notiziario tv, nel giorno in cui il presidente americano è arrivato a Riad, prima tappa del suo viaggio nel mondo arabo. Domani Obama sarà al Cairo, in Egitto, dove pronuncerà un atteso discorso per gettare un ponte con i paesi islamici, di cui ha anticipato in un'intervista i contenuti. "Vogliono distrarre dalla visita del presidente in Medio Oriente", è la prima reazione dell'amministrazione. In particolare, sottolinea la Casa Bianca, Al Qaeda ha interesse a distogliere l'attenzione dal discorso di domani al Cairo, che si preannuncia di portata storica. Già ieri era arrivato un altro comunicato di Al Qaeda, firmato dal suo numero due Al Zawahiri, che accusava Obama di essere un criminale sanguinario.

"Obama segue la linea di chi lo ha preceduto nel disprezzo e nello spirito di vendetta che cova nei confronti dei musulmani", dice la voce attribuita al leader di Al Qaeda nella registrazione audio trasmessa da Al Jazeera. Bin Laden parla anche della recente offensiva militare dell'esercito pachistano nella Valle di Swat, in Pakistan: "Obama e la sua amministrazione hanno spinto (il presidente pachistano Asif Ali) Zardari ad applicare la sharia con i bombardamenti e le distruzioni che hanno provocato 2000 morti musulmani nella valle dello Swat", dice nell'audio lo sceicco del terrore.

"Questo significa semplicemente che Obama e la sua amministrazione hanno gettato nuovi semi per l'odio e la vendetta contro gli Stati Uniti", continua il capo di Al Qaeda: "Il numero di questi semi equivale a quello dei morti e del senzatetto nella valle dello Swat e significa che Obama segue i passi del suo predecessore. Quello che si sta verificando in Pakistan - sostiene poi Bin Laden - è un complotto giudaico-americano-indiano, che mira a dividere il paese per eliminare le preoccupazioni americane sull'arma nucleare pachistana".

Nella capitale saudita, l'audio è stato accolto con freddezza: è un ''atto di disperazione'' da parte del leader di Al Qaeda, ha dichiarato un responsabile del ministero dell'Informazione. ''Continuano a rilasciare le loro dichiarazioni nascosti in una caverna'', ha aggiunto.

A Riad il presidente americano è giunto senza la moglie Michelle, che lo raggiungerà nella parte europea del viaggio con tappe a Dresda e in Normandia nei prossimi giorni, ed è stato accolto ai piedi della scaletta dell'Air Force One dal sovrano saudita Abdullah. In programma ci sono una serie di colloqui tra Obama e Abdullah nel palazzo del sovrano all'esterno di Riad, famoso per le scuderie dove sono allevati preziosi cavalli da corsa.

Tra i temi principali in agenda: il prezzo del petrolio, i rapporti con l'Iran, il rilancio del negoziato di pace tra israeliani e palestinesi. Obama trascorrerà la notte nel palazzo di Abdullah per trasferirsi domani in Egitto dove pronuncerà il suo atteso discorso rivolto al mondo musulmano.

La prima reazione americana. Al Qaeda tenta di "deviare l'attenzione del mondo musulmano dal messaggio che dal Cairo Barack Obama lancerà all'Islam". E' questa la prima reazione della Casa Bianca al messaggio audio di Osama bin Laden.

(3 giugno 2009)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2008-06-03

L'INTERVISTA. Il presidente Obama anticipa l'atteso discorso del Cairo

Oggi inizierà il suo viaggio nei Paesi islamici: "Occasione per il dialogo"

"Fermiamo lo scontro di civiltà

questo dirò a tutti i musulmani"

di JUSTIN WEBB

"Fermiamo lo scontro di civiltà questo dirò a tutti i musulmani"

Presidente Obama, partiamo dal discorso che farà al Cairo giovedì. Molti musulmani, di fatto, si aspettano le scuse per gli errori commessi durante gli anni dell'Amministrazione Bush e per quelle che reputano essere le violazioni commesse dagli Stati Uniti. E' così?

"No, quello che intendiamo fare è aprire un dialogo. Ci sono stati sicuramente grossi malintesi ed errori di comprensione sull'Occidente da parte del mondo musulmano, e ce ne sono stati di altrettanto grossi nei confronti del mondo musulmano da parte nostra. Nessun discorso può risolvere i problemi reali che esistono, ma credo che questa possa essere un'occasione ideale per far sì che entrambe le parti abbiano l'opportunità di ascoltarsi. E che entrambi potremo imparare dalla controparte qualcosa di più sulla sua cultura".

Lei parla di entrambe le parti. Cosa la induce a credere che i musulmani siano disposti ad ascoltarla, e a cambiare atteggiamento nei confronti degli Stati Uniti?

"Faccio un piccolo esempio. La popolazione musulmana negli Stati Uniti è più numerosa di quella presente in molti Stati a maggioranza musulmana. C'è un contesto nel quale le cose possono essere aiutate a migliorare. Alcuni musulmani sono esponenti politici locali, altri membri del Congresso, abbiamo perfino un presidente che ha parenti musulmani. Quindi l'idea che l'America sia distaccata, lontana, e che lo scontro di civiltà sia inevitabile, è sbagliata".

Il suo discorso sarà pronunciato al Cairo. Secondo Amnesty International in Egitto ci sono migliaia di prigionieri politici. Come affronterà questo tema scottante?

"La questione dei diritti umani esiste in tutto il Medio Oriente, credo che nessuno possa metterlo in dubbio. Il messaggio che io spero di far arrivare è che democrazia, la legalità e il rispetto della legge, della libertà di parola, della libertà di religione non sono semplicemente principi dell'Occidente, ma sono principi universali, che loro possono abbracciare, che possono essere difesi ovunque, affermati ovunque come parte di ogni identità nazionale. Il pericolo c'è quando gli Stati Uniti o chiunque altro pensa che si possano imporre questi valori ad altri Paesi con culture e storie completamente diverse, mentre il nostro compito è quello di incoraggiare e promuovere questi valori".

Molti si aspettano di conoscere qualcosa di incoraggiante per ciò che concerne il conflitto israelo-palestinese. Lei ha detto chiaramente che vuole che gli insediamenti dei coloni israeliani siano congelati. Ma gli israeliani non intendono farlo. Come si esce da questa situazione?

"Ho parlato col primo ministro Netanyahu, ma penso che non abbiamo ancora visto gesti di potenziale collaborazione da parte di altri stati arabi e dei palestinesi che possano aiutare e dare garanzie al governo israeliano... Ho affrontato con lui alcune delle preoccupazioni di Israele. Io sono convinto che se si seguirà la road map che è stata delineata, se Israele rispetterà gli obblighi fissati che le competono e sono previsti, in primis evitando i nuovi insediamenti, e se i palestinesi faranno fronte ai loro obblighi, soprattutto in tema di sicurezza, e se tutti gli Stati arabi circostanti saranno disposti a collaborare con il Quartetto a incoraggiare lo sviluppo economico e quello politico, allora potremo fare dei progressi concreti. Di sicuro nelle prossime ore lavoreremo con grande pazienza sul fronte diplomatico. La diplomazia comporta tempi lunghi, lenti, ma sicuramente proficui. Non si possono mai avere risultati immediati".

Questo significa che ci sarà molto da lavorare ancora per arrivare alla pace.

"Nessuno pensa che questo possa essere un risultato semplice da conseguire. Ma l'importante è ripartire con seri negoziati. Faremo tutto quello che è possibile per riuscirci. Perché una cosa deve essere chiara: non è soltanto nell'interesse dei palestinesi avere uno stato palestinese tutto loro, ma lo è anche per il popolo israeliano che ha interesse a stabilizzare la sicurezza. Ed è importante e nell'interesse degli Stati Uniti arrivare a una soluzione di due Stati che vivono vicini in pace e in sicurezza".

Israele invece è riuscita a convincerla sul fatto che bisogna arrivare a risultati per fermare il progetto nucleare iraniano entro questo anno.

"Vorrei correggerla su un piccolo dettaglio non indifferente: Israele non ha affatto bisogno di convincermi di una cosa del genere. Credo che sia venuto il momento per il mondo di sentire tutto l'interesse legato al fatto che Teheran si convinca che deve accantonare il suo progetto di dotarsi della bomba atomica e di armi nucleari. Ma il modo migliore per farlo è con incessanti e duri negoziati. Noi abbiamo una scaletta di marcia precisa, non vogliamo fissare scadenze precise, ma entro quest'anno di sicuro vogliamo che sia possibile valutare e capire definitivamente se l'Iran ha le idee chiare ed è seria per ciò che concerne la rinuncia al suo programma nucleare. Theran ha diritto al nucleare pacifico, ha tutto il potenziale che le serve per essere un Paese molto potente, molto prospero e ricco. Ha molte più possibilità senza l'arma atomica, che potrebbe innescare una corsa agli armamenti nella regione e una proliferazione nucleare pericolosa. Credo che per il momento la cosa importante sia dare il via a un processo rigoroso di negoziati bilaterali che possa portare all'abbandono definitivo del programma nucleare".

(Copyright Bbc News. Traduzione di Anna Bissanti)

(3 giugno 2009)

 

 

 

 

 

 

L'UNITA'

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2009-06-04

Obama propone un nuovo inizio con l'Islam

Il presidente statunitense Barack Obama ha proposto oggi "un nuovo inizio" al mondo musulmano basato "sul reciproco rispetto": il "ciclo del sospetto e della discordia" deve terminare, ha detto in un discorso

all'Università del Cairo.

Obama, citando più volte il Corano, si è presentato come uomo di pace e ha invitato l'Islam a respingere il richiamo degli "estremisti violenti" e a concentrarsi "su ciò che ci unisce". Obama, ricordando i suoi legami familiari con il mondo musulmano, ha detto che considera suo dovere di presidente combattere "gli stereotipi negativi" sull'Islam.

Il presidente Usa, parlando della pace in Medio Oriente, ha detto che la Shoah non può essere negata e che minacciare Israele di distruzione è "profondamente errato": i legami tra Stati Uniti e Israele sono inattaccabili. Ma nello stesso tempo non esistono dubbi sul fatto che "la situazione del popolo palestinese è intollerabile" come sul fatto che la soluzione è quella dei "due Stati". Ma i palestinesi devono abbandonare la violenza.

Obama ha detto che gli Usa non intendono mantenere per sempre le truppe in Afghanistan ed ha riconosciuto la lezione dell'Iraq: perseguire sempre prima la diplomazia e la ricerca del consenso internazionale. Il presidente Usa ha ammesso che la reazione all'11/9 ha portato l'America a tradire i suoi ideali. Obama ha riconfermato la ricerca del dialogo con l'Iran e detto che Teheran ha diritto di avere accesso all'energia nucleare pacifica. Ma è necessario evitare una corsa alle armi nucleari in Medio Oriente ed in tutto il mondo.

Nel suo discorso, Obama ha toccato temi delicati come la libertà di religione, la democrazia, il rispetto dei diritti umani e l'uguaglianza sessuale. Citando il Corano, il Talmud e la Bibbia, con brani che inneggiano alla pace, Obama ha chiuso il suo discorso affermando che la volontà di Dio è chiara: ma spetta adesso agli uomini fare la loro parte.

Positive le prime reazioni. Hamas vede nel discorso di Barack Obama al Cairo segnali di "discontinuità rispetto alla politica del suo predecessore George W. Bush". Lo ha detto all'ANSA Taher Nunu, portavoce del governo di fatto del movimento islamico radicale palestinese al potere nella Striscia di Gaza. Nunu spera anche che sia "l'inizio di un cambiamento basilare" e, da parte sua, auspica "ogni forma di dialogo con l'amministrazione Usa" fondata "sul rispetto delle scelta democratiche dei popoli".

Invece Osama bin Laden mette in guardia i musulmani dall'allearsi con cristiani ed ebrei, un'alleanza "che annulla la fede musulmana". Il monito è contenuto nel testo integrale del messaggio alcuni estratti del quale erano stati resi noti ieri da al Jazira.

La pubblicazione su un sito islamico dell'audio, che dura complessivamente 25 minuti, è giunta in contemporanea al discorso del presidente Usa Barack Obama al Cairo. Bin Laden ha fatto appello ai musulmani perchè "combattano gli alleati degli infedeli".

04 giugno 2009

 

 

 

 

 

 

Egitto, attesa per il "discorso all'Islam" di Barack Obama

Il presidente americano Barack Obama è arrivato questa mattina al Cairo proveniente dall'Arabia Saudita. Punto centrale della sua visita in Egitto sarà l'attesissimo "discorso all'Islam" che il leader della Casa Bianca pronuncerà all'Università del Cairo, discorso sul quale Obama ha lavorato fino all'ultimo minuto. L'agenda della sua visita nel paese prevede prima dell'intervento all'università, un incontro con il presidente egiziano Hosni Mubarak.

La Casa Bianca, però, non si fa illusioni. "Si è creata innegabilmente nel tempo una frattura tra l'Islam e gli Stati Uniti. Non è una frattura che possiamo ricomporre con un solo discorso o anche nell'arco di una intera amministrazione". L'atteso discorso di Obama al Cairo sarà solo "un passo" nel lungo cammino da percorrere per riavviare un dialogo tra gli Usa e il mondo musulmano. E intanto il leader di al Qaida Osama bin Laden, in una registrazione audio, ha accusato Barack Obama di "adottare la stessa politica di George Bush".

A conferma che il nuovo atteggiamento del presidente Usa sta ottenendo qualche risultato, giunge un sondaggio, realizzato da Ipsos/Reuters in 22 nazioni, secondo cui Obama ha accresciuto del 6% l'immagine positiva degli Stati Uniti all'estero dal suo insediamento. Secondo gli esperti, si tratta di un "effetto luna di miele". In Turchia, l'unico Paese a maggioranza musulmana preso in esame, l'incremento è di 25 punti e si attesta al 49% di pareri favorevoli. Altre sei nazioni fanno registrare un'impennata a due cifre: Francia (+13 al 39%), Belgio (+12 al 36%), Germania (+11 al 31%), Olanda (+11 al 27%), Canada (+10 al 44%) e Spagna (+10 al 43%). Solo in tre Paesi non si registrano incrementi della popolarità degli Usa, in Russia (la percentuale di approvazione è ferma al 18%), Polonia (-4 al 48%) e Repubblica Ceca (-1 al 35%).

04 giugno 2009

 

 

"Obama semina odio come Bush"

Il leader di al Qaida Osama bin Laden accusa il presidente americano Barack Obama di "adottare la stessa politica di George Bush" aggiungendo che "Obama e la sua amministrazione hanno gettato altri semi per aumentare l'odio e la vendetta contro gli Stati Uniti". Sono le prime parole della registrazione audio, diffuse da Al Jazira in apertura del notiziario tv.

03 giugno 2009

2009-06-03

Obama scatena l'ira dei coloni israeliani

"Non è solo nell'interesse dei palestinesi avere uno stato, è nell'interesse del popolo israeliano stabilizzare la situazione. Ed è nell'interesse degli Stati uniti che vi siano due stati che vivano a fianco a fianco in pace e sicurezza", dice Barack Obama in un'intervista concessa alla Bbc alla vigilia del suo viaggio in Europa e Medio Oriente.

 

Ma se con il governo di Israele è scoccata l'ora del grande freddo, dalla trincea del movimento dei coloni la guerra delle parole è già rovente. Bersaglio, l'amministrazione Usa di Barack Obama, le cui continue sollecitazioni per uno stop all'espansione degli insediamenti ebraici nei territori palestinesi occupati nel 1967 sono giunte a scatenare oggi l'accusa di "terrorismo politico".

 

L'ultima occasione di polemica è stata un'intervista radiofonica di Obama - alla vigilia di un tour mediorientale concepito come il viaggio della mano tesa al mondo islamico - in cui il nuovo inquilino della Casa Bianca ha parlato delle necessità di mostrare "franchezza" a Israele. Come si fa tra amici quando non si è d'accordo su qualcosa.

Parole destinate a scuotere una volta di più le certezze su un'alleanza strategica pluridecennale. E su temi-chiave come il processo di pace con i palestinesi (che Obama vorrebbe rilanciare verso una soluzione, quella dei "due Stati", vista oggi quanto meno con scetticismo dal governo di destra con appendice laburista di Benyamin Netanyahu); o il congelamento degli insediamenti in Cisgordania e a Gerusalemme est (500.000 persone in totale).

 

La risposta ufficiale israeliana su quest'ultimo punto - confermata ieri da Netanyahu e oggi di nuovo dal ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, in visita a Mosca - resta coriacea: nuovi insediamenti - è la promessa - non se ne costruiranno, ma i contestati programmi d'allargamento edilizio delle colonie esistenti andranno avanti in nome della "crescita naturale".

Una risposta che agli Stati Uniti non sembra bastare più. Come hanno ribadito in questi giorni tanto Obama quanto il segretario di Stato (ed ex beniamina dalla lobby filo-israeliana di Washington) Hillary Clinton. La quale ultima, a margine dei recenti colloqui americani del presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Abu Mazen (Mahmud Abbas), non ha esitato a dire che l'espansione delle colonie va fermata "senza eccezioni" di sorta. E senza credere di cavarsela con lo smantellamento di qualche piccolo avamposto abusivo, la cui rimozione - riproposta oggi stesso a Washington quale gesto di buona volontà da Ehud Barak, ministro della Difesa e capofila della minoranza laburista nel gabinetto Netanyahu - viene giudicata doverosa, ma del tutto simbolica.

 

Sul fronte interno israeliano pesa d'altronde la reazione del movimento del coloni. Tornato a farsi sentire oggi per bocca dei leader della Yesha (consiglio di coordinamento degli insediamenti) con un'intimazione in piena regola al governo.

"Gli americani impiegano ormai l'arma del terrorismo politico contro lo Stato d'Israele", ha tuonato dopo l'ultima intervista di Obama il presidente della Yesha, Danny Dayan, accusando il leader Usa non solo d'aver dimenticato le concessioni sulla sorte immediata delle colonie fatte a suo tempo dal predecessore George W. Bush in una lettera ad Ariel Sharon (lettera già invocata come una specie di patto di sangue anche da Yisrael Katz e Ghilad Erdan, ministro dei Trasporti e dell'Ambiente entrambi del Likud, il partito di Netanyahu). Ma persino di mettere in dubbio "la decisione di Truman del 14 maggio 1948 sul riconoscimento d'Israele". Un atteggiamento dinanzi al quale - ha sentenziato Dayan - bisogna essere pronti a tenere fermo il no su tutta la linea, altrimenti le pressioni "diverranno una valanga capace di portare fino alla spartizione di Gerusalemme".

02 giugno 2009

 

 

 

 

 

 

il SOLE 24 ORE

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2009-06-04

Obama al Cairo: "Non si può imporre la democrazia"

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4 giugno 2009

ANALISI

Il "mondo musulmano" non esiste

di Scott Carpenter e Soner Cagaptay

Bin Laden accusa: Obama segue le orme di Bush

La vignetta di Stephff

"Gli Stati Uniti non devono essere in contrasto con l'Islam". Così il presidente statunitense Barack Obama ha iniziato il suo discorso all'Università del Cairo.

"Ci deve essere un nuovo inizio nei nostri rapporti, basato sull'interesse reciproco", ha proseguito il presidente che, proprio in virtù del suo ruolo, avverte come sua responsabilità "combattere gli stereotipi negativi sull'Islam, da dovunque provengano. come i musulmani non rientrano in uno stereotipo grezzo", ha però chiarito Obama, "l'America non è lo stereotipo grezzo di un impero interessato".

"Agli Stati Uniti non interessa mantenere l'esercito in Afghanistan" e "i Palestinesi devono smettere di attaccare Israele, e Israele di formare nuovi insediamenti. Sei milioni di ebrei sono stati uccisi dal Terzo Reich. Negare questo fatto è assurdo e odioso. Minacciare Israele di distruzione è profondamente errato". I legami degli Stati Uniti con Israele sono "indistruttibili", ma la situazione dei palestinesi è "intollerabile". L'unica soluzione per le aspirazioni di israeliani e palestinesi "è quella di due Stati che convivono in pace e sicurezza. "Questa è la strada che intendo perseguire", ha detto Obama.

E per il presidente, "l'Iran deve avere la possibilità di fare esperimenti nucleari, ma con fini pacifici, e deve aderire al Trattato di non-proliferazione". "Nessun sistema di governo può o dovrebbe essere imposto da una nazione sopra qualsiasi altra", ha detto Obama. "L'11 settembre è stato un trauma enorme per l'America. La paura e la rabbia provocati sono comprensibili ma, in alcuni casi, ci hanno portato ad agire in modo contrario rispetto ai nostri ideali".

Obama ha parlato anche della condizione femminile: "Non condivido l'idea di alcuni occidentali che credono che una donna che accetta di coprirsi il capo sia meno uguale, ma credo che negando l'istruzione ad una donna le si neghi l'eguaglianza". A questo punto gli studenti e le studentesse dell'università della capitale egiziana hanno applaudito con molto entusiasmo. "Le nostre figlie possono contribuire alla società quanto i nostri figli - ha poi aggiunto - e rispetto le donne che scelgono di vivere la loro vita secondo le regole tradizionali, ma deve essere una loro scelta".

Dopo la visita alla moschea del Sultano Hassan, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, accompagnato dalla segretaria di Stato, Hillary Clinton, si è diretto all'Università. Ad aspettarlo varie personalità, tra le quali il premier Ahmed Nazif, con numerosi ministri, il segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa, quello dell'Organizzazione per la Conferenza Islamica (Oci), Ekmeleddin Ihsanoglu, e l'intero corpo diplomatico presente nella capitale egiziana, incluso l'incaricato d'affari dell'Iran al Cairo, Hussein Rugbi.

Secondo il quotidiano panarabo Asharq al Awsat, l'inserimento del diplomatico iraniano tra gli invitati ufficiali nella lista preparata con cura dal Cairo e Washington insieme, è senza precedenti per un discorso del presidente americano dal 1979, data della rivoluzione in Iran.

In contemporanea su un sito islamico il messaggio integrale di Osama Bin Laden.Osama bin Laden mette in guardia i musulmani dall'allearsi con cristiani ed ebrei,

un'alleanza "che annulla la fede musulmana". Il monito è contenuto nel testo integrale del messaggio alcuni estratti del quale erano stati resi noti ieri da Al Jazeera. La pubblicazione su un sito islamico dell'audio, che dura complessivamente 25 minuti, è giunta in contemporanea al

discorso del presidente Usa Barack Obama al Cairo. Bin Laden ha fatto appello ai musulmani perché "combattano gli alleati degli infedeli".

Hamas e Anp: "Segni di cambiamento nel discorso di Obama".

Hamas vede nel discorso di Barack Obama al Cairo segnali di "discontinuità rispetto alla politica del suo predecessore George W. Bush". Lo ha detto all'ANSA Taher Nunu, portavoce del governo di fatto del movimento islamico radicale palestinese al potere nella Striscia di Gaza.

Nunu spera anche che sia "l'inizio di un cambiamento basilare" e, da parte sua, auspica "ogni forma di dialogo con l'amministrazione Usa" fondata "sul rispetto delle scelta democratiche dei popoli".

Per Nimer Hamad, consigliere per la stampa del presidente dell' Autorità palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) il discorso del presidente è stato un discorso "storico per il posto, il momento e il contenuto". Hamad ha detto che Obama ha scelto "la linea del dialogo invece di quella del confronto usata dalla precedente amministrazione (del presidente George W.) Bush".

"Siamo stati invitati ad ascoltare il discorso del presidente americano e undici nostri deputati andranno a farlo stamane all'Università del Cairo", lo ha fatto sapere alla tv satellitare al Jazeera, Mohammed Habib, vice guida generale dei Fratelli Musulmani egiziani, la più grande e antica organizzazione islamica non proprio moderata dell'islam sunnita.

Se il presidente Usa Barack Obama "non cambierà nei fatti la sua politica", nemmeno "cento discorsi non basteranno per cambiare l'immagine dell'America" nei Paesi islamici. Lo ha detto oggi la Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei.

4 giugno 2009

 

 

 

 

 

 

Bin Laden accusa: Obama segue le orme di Bush

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3 giugno 2009

 

"Obama segue la linea di chi lo ha preceduto nel disprezzo e nello spirito di vendetta che cova nei confronti dei musulmani". È quanto ha affermato la voce attribuita al leader di al-Qaeda, Osama Bin Laden, nel corso di una nuova registrazione audio trasmessa poco fa dalla tv araba 'al-Jazeera'. Il messaggio del terrorista saudita viene trasmesso proprio in occasione dell'avvio del tour del capo di stato americano in Medio Oriente, che lo vede oggi a Riad e domani al Cairo.

"Egli ha seguito i passi del predecessore nell'inimicarsi i musulmani e nel porre le premesse di lunghe guerre - insiste il leader di al-Qaeda -. Obama e la sua amministrazione hanno seminato nuovi semi dell'odio contro l'America". Aggiunge, puntando l'indice sull'appoggio statunitense al regime pachistano nella sua battaglia contro le milizie talebane nella valle dello Swat.

Secondo Bin Laden la politica dell'amministrazione Obama in Pakistan ha finito col favorire l'applicazione della sharia, la legge coranica, nel paese. "Obama e la sua amministrazione hanno spinto (il presidente pachistano Asif Ali) Zardari ad applicare la sharia con i bombardamenti e le distruzioni che hanno provocato 2000 morti musulmani nella valle dello Swat". Bin Laden mette dunque in guardia gli americani dal rischio di un allargarsi del conflitto bellico a causa delle politiche delle due diverse amministrazioni Usa: "Gli americani si preparino a raccogliere le messi di quello che i leader della Casa Bianca piantano negli anni e nei decenni".

Immediata la replica del governo saudita, che aveva appena accolto l'arrivo del presidente Usa: "È un atto di disperazione - ha tagliato corto un alto esponente del regime -. Fanno ancora i loro proclami dal fondo della caverna in cui sono nascosti".

Si tratta di una vecchia registrazione

La dichiarazione registrata di Osama bin Laden "non è nuova e non ha nulla a che fare con la visita di Barack Obama in Egitto. È una vecchia registrazione sulla situazione in Pakistan". Lo ha affermato l'esperto egiziano di terrorismo Dia Rashwan, vicepresidente del Centro di Studi Politici e Strategici Al Ahram. La dichiarazione di Rashwan è stata mandata in onda dalla tv satellitare al-Jazeera subito dopo la trasmissione dei brani del capo di Al Qaida, durati in totale circa tre minuti.

3 giugno 2009

 

 

 

 

2009-06-03

Obama in Medio Oriente tende la mano ai musulmani

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3 GIUGNO 2009

ANALISI

L'America non è in guerra con l'Islam

di Martino Pillitteri

Barack Obama in Medio Oriente e in Europa. Il presidente degli Stati Uniti ha lasciato ieri Washington alla volta dell'Arabia Saudita poco dopo le 19.00 locali, l'una di notte in Italia, a bordo dell'aereo presidenziale AirForceOne. Dopo l'Arabia Saudita, Obama si recherà, in Egitto e si sposterà quindi in Europa, dove visiterà il campo di concentramento nazista di Buchenwald, in Germania, prima di concludere il suo viaggio in Francia partecipando al 65.mo anniversario dello sbarco alleato in Normandia. Ma il punto centrale del suo viaggio sarà la visita in Egitto e il discorso che giovedì pronuncerà all'Università del Cairo. Un discorso annunciato per cercare di migliorare i rapporti con il mondo musulmano e per chiedere il rispetto dei principi democratici ai Paesi arabi. La missione di Obama sarà anche un'occasione per ribadire a Israele la posizione della Casa Bianca sui nuovi insediamenti dei coloni e sulla creazione dello Stato palestinese.

Gli Stati Uniti sono "uno dei più grandi paesi musulmani del pianeta" ha sottolineato ieri sulla rete televisiva francese Canal+ il presidente Usa che domani, giovedì, al Cairo pronuncerà un importante discorso di riconciliazione con il mondo musulmano.

"Gli Stati Uniti e il mondo occidentale devono imparare a conoscere meglio l'Islam; d'altro canto, se si conta il numero di americani musulmani, si vede che gli Stati Uniti sono uno dei più grandi paesi musulmani del pianeta" ha detto Obama. "Quel che cerco di fare, è di creare un miglior dialogo perché il mondo musulmano possa meglio comprendere come gli Stati Uniti, ma più generalmente il mondo occidentale, concepiscono alcuni difficili problemi, quali il terrorismo o la democrazia" ha aggiunto

A Israele Obama, prima di partire, si è fatto precedere da un messaggio "da amico onesto": la piega che ha preso il tema degli insediamenti ebraici in Cisgiordania è negativa e richiede un cambio di rotta. "Essere onesti è parte dell'essere buoni amici", ha detto Obama, parlando delle relazioni Usa-Israele in un'intervista alla radio Npr. "Ci sono stati momenti nei quali non siamo stati onesti come avremmo dovuto - ha aggiunto - riguardo al fatto che la direzione attuale, la traiettoria nella regione è profondamente negativa, non solo per gli interessi di Israele ma anche per quelli degli Stati Uniti. E questo fa parte del nuovo tipo di dialogo che cercherò di incoraggiare". Obama, e poi il suo portavoce Robert Gibbs, hanno ribadito che quello dell'espansione degli insediamenti dei coloni ebraici resta il nervo scoperto della discussione, assieme all'insistenza sulla "soluzione dei due stati". Il nuovo governo di Benyamin Netanyahu è al potere da poco, ha detto il presidente americano, quindi occorrerà del tempo: "Avremo una serie di conversazioni, quel che è certo è che strategicamente lo status quo è insostenibile quando si tratta della sicurezza di Israele. In assenza di pace con i palestinesi - ha aggiunto Obama - Israele continuerà a essere minacciato militarmente e avrà enormi problemi ai propri confini".

Parole accolte con malumore a Tel Aviv, e sulle quali il governo israeliano cerca di far fare un cambio di rotta all'amministrazione Obama. Il ministro della Difesa Ehud Barak è sbarcato a questo scopo a Washington, poco prima della partenza del presidente per il Medio Oriente, per recarsi alla Casa Bianca a chiedere al consigliere per la sicurezza nazionale, James Jones, una maggiore flessibilità sugli insediamenti.

Obama arriva oggi a Riad per incontrare il re saudita Abdullah II, per poi spostarsi in Egitto per un incontro giovedì con il presidente Hosni Mubarak - assieme al segretario di Stato Hillary Clinton - e per il discorso all'Università del Cairo. La situazione del processo di pace mediorientale sarà ovviamente al centro dei colloqui, ma l'intervento di Obama nella capitale egiziana avrà un respiro più ampio. Lo stesso presidente ne ha anticipato lo scopo in un'intervista alla Bbc, spiegando di voler proporre un dialogo al mondo musulmano nel quale le proposte di democrazia e libertà possano venir abbracciate anche da paesi fondati sulle leggi islamiche.

"Il messaggio che spero di portare - ha detto Obama - è che democrazia, stato di diritto, libertà d'espressione e libertà religiosa non sono semplicemente principi dell'occidente da trasferire in questi paesi. Io credo invece che siano principi universali che possono abbracciare come parte della loro identità nazionale".

Obama userà la propria biografia come cuneo, ricordando di avere familiari musulmani, di essere cresciuto in Indonesia (il più popoloso paese musulmano del mondo), e di aver giurato da presidente usando anche il proprio secondo nome, 'Hussein'. La decisione di chiudere Guantanamo è un'altra arma nelle mani del presidente, e Obama la utilizzerà nel tentativo di "cambiare la conversazione dell'America con l'Islam", come ha sintetizzato Denis McDonough, uno dei consiglieri di Obama per la sicurezza nazionale.

Lo staff delle comunicazioni alla Casa Bianca si prepara a dare la massima enfasi al discorso del Cairo, utilizzando anche i siti 'socialì del web. "Non sto dicendo che lo trasmetteremo un pezzo alla volta su Twitter, ma puntiamo a diffondere il discorso oltre i giornali e le Tv", ha detto il portavoce Gibbs, ricordando che la Casa Bianca dispone di un proprio blog ed è presente su Facebook, MySpace, YouTube e Flickr.

3 GIUGNO 2009

 

 

 

 

Obama in tour, analisi della tappa al Cairo

di Martino Pillitteri

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29 maggio 2009

Barack Obama (Epa)

Molti giornali arabi ed opinion maker stanno dibattendo sull'importanza della visita di President Obama in Egitto. Perché il neo presidente ha scelto la terra dei Faraoni? Che cosa dirà? Qual è il denominatore comune tra la famosa intervista rilasciata ad Al Arabiya, il discorso al Parlamento turco e quello che questi terrà al Cairo il prossimo 4 giugno? La risposta viene da Washington: "sarà un ampio discorso sui nostri rapporti con i musulmani nel mondo", ha detto il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs.

Invece, una curiosità ancora pendente riguarda la location cairota. Obama darà sfogo a tutta la sua dialettica e al suo appeal dal parterre delle Piramidi di Giza? Parlerà di giorno oppure sarà più suggestivo parlare di notte con alle spalle la sfinge ? Lo farà dal parlamento egiziano? Un noto blogger egiziano che è spesso citato come fonte di notizie e di analisi da vari media inglesi e americani che scrive sotto lo pseudonimo di Sandmonkey, ha invece proposto due luoghi simbolici come il Manssah, la tomba dove è sepolto Sadat, ( il presidente egiziano ucciso dagli adepti appartenenti alla Fratellanza Musulmana, movimento che va ancora molto di moda al Cairo) e il parco di Al Azhar, una bella e verdeggiante oasi, proprio davanti all'università di Al Azhar, il centro di riferimento del pensiero sunnita più importante al mondo, dove l'antiamericanismo e le fatwe più bizzarre che assillano l'esistenza di milioni di egiziani sono sempre più di casa.

Non sarà suggestivo, non sarà mediatico, non sarà coreografico, non sarà Hollywoodiano, ma simbolico e storico probabilmente si: parlare al mondo in un periodo di guerre e di sfiducia davanti alla tomba di un presidente come Sadat, definito dagli egiziani l'eroe della pace e della guerra avrebbe il potere di comunicare una visone di pace tra Israele e il mondo musulmano senza dover mai nominare lo stato ebraico e i suoi nemici. Per quanto riguarda la seconda location, considerando che l'università di Al Azhar è una sorta di Vaticano sunnita e il luogo dove vengono formati i futuri Imam musulmani, il parco adiacente all'istituzione religiosa in questione sarebbe un luogo ideale per comunicare che l' America non è in guerra con l'Islam.

Ci sarebbe anche un terzo posto. E' una location meno esotica, dove la maggioranza delle persone non professa neppure la fede islamica, ma chi lo fa potrebbe essere la chiave per attenuare alcune crisi geopolitiche ed agire da anticorpi nei confronti delle spinte fondamentaliste. E' l' Europa, tappa successiva dopo quella egiziana del tour del Presidente Obama. Un bel discorso ai musulmani nati nel vecchio continente, dunque rivolto alle seconde generazioni euro musulmane cui spetta il compito di costruire l'Islam europeo, potrebbe essere un investimento che darebbe i suoi frutti nel lungo termine e dovrebbe essere considerato con attenzione. La stragrande maggioranza delle 2G euro musulmane, pur mantenendo le loro radici storiche e religiose, sono come un tronco i cui rami crescono sani e incontaminati dalle ideologie e della teorie cospirative. Il valore aggiunto e la ricchezza delle seconde generazioni euro-arabe musulmane e dei figli delle coppie miste riguarda il fatto che essi sono liberi. Non devono scegliere l'Islam dei loro genitori, dei loro vicini di casa, quello del quartiere, quello della città, della società, dei telepredicatori su Al Jazeera. Una società libera come quella europea permette di sperimentare nuove vie, di percorrere nuove strade,di favorire nuove interpretazioni e nuovi linguaggi che i loro cugini e amici in medio oriente non possono neppure contemplare in pubblico.

E' qui in Europa che i musulmani possono rompere i tabù che al Cairo incontrano tanta resistenza come i matrimoni misti, le conversioni, il rispetto dell'ateismo, la valorizzazione del pluralismo, le gerarchie interne, l'emancipazione delle donne e dei giovani, la libertà di espressione ed anche l'autocritica. Sono loro la terza voce che media tra gli europei scettici nei confronti dei musulmani in medio oriente e quei musulmani che non capiscono perché il west non si fidi di loro. Quando alcune seconde generazioni euro arabe torneranno nei loro paesi di origine, porteranno con sé una cultura laica, esigeranno good governance da parte dei politici, e contribuiranno a smontare le logiche di chi in medio oriente continua a politicizzare l'Islam. E perché no, forse qualcuno di loro con il doppio passaporto potrà anche diventare un nuovo Barack Hussein Obama. Il change in medio oriente potrebbe partire dall'Europa. Il prossimo Hussein al potere al Cairo, ad Amman o a Tunisi potrebbe essere già nato e si sta fumando un Narghilè e gustando un cappuccino a Milano, a Londra o Parigi.

29 maggio 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

il messaggio al mondo musulmano del presidente degli Stati Uniti

Il discorso di Obama al Cairo

Il testo integrale nella versione originale in inglese

MILANO - Ecco il testo del discorso tenuto dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama al Cairo.

 

Italiano

Sono onorato di essere nel tempo, città del Cairo, e di essere accolti da due importanti istituzioni. Per oltre un migliaio di anni, Al-Azhar ha dato come un faro di apprendimento islamica, e per oltre un secolo, Università del Cairo è stato una fonte d'Egitto di avanzamento. Insieme, lei rappresenta l'armonia tra tradizione e progresso. Sono grato per la vostra ospitalità, e l'ospitalità del popolo d'Egitto. Sono anche orgoglioso di portare con me la buona volontà del popolo americano, e un saluto di pace da parte di comunità musulmane nel mio paese: assalaamu alaykum.

"Ci incontriamo in un momento di tensione tra gli Stati Uniti ei musulmani di tutto il mondo - la tensione radicata nel forze storiche che vanno al di là di ogni discussione politica attuale. Il rapporto tra l'Islam e l'Occidente comprende secoli di coesistenza e di cooperazione, ma anche dei conflitti e guerre di religione. Più di recente, la tensione è stata alimentata dal colonialismo che nega diritti e di opportunità per molti musulmani, e di una guerra fredda, in cui i paesi a maggioranza musulmana sono stati troppo spesso trattata come proxy senza riguardo alle loro aspirazioni.

Inoltre, i radicali cambiamenti portati dalla modernità e la globalizzazione ha portato molti musulmani per vedere l'Occidente come ostile alle tradizioni dell'Islam. Violenti estremisti hanno sfruttato queste tensioni in una piccola ma potente minoranza di musulmani. Gli attacchi dell'11 settembre, il 2001 e il proseguimento degli sforzi di questi estremisti di impegnarsi nella violenza contro la popolazione civile ha indotto alcuni nel mio paese per vedere l'Islam come inevitabilmente ostile non solo in America e nei paesi occidentali, ma anche per i diritti umani. Ciò ha creato più paura e diffidenza. Fintanto che il nostro rapporto è definito da le nostre differenze, si abilitano coloro che seminano l'odio piuttosto che la pace, e che di conflitto, piuttosto che promuovere la cooperazione che possono contribuire a tutti il raggiungimento del nostro popolo la giustizia e prosperità. Questo ciclo di sospetto e di discordia deve finire. Sono venuto qui a cercare un nuovo inizio tra gli Stati Uniti ei musulmani di tutto il mondo, uno basato su un interesse comune e di rispetto reciproco, e uno basato sulla verità, che l'America e l'Islam non sono esclusivi, e non ha bisogno di essere in concorrenza. Invece, si sovrappongono, e la condivisione di principi comuni - i principi di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità di tutti gli esseri umani. Lo faccio riconoscere che il cambiamento non può avvenire durante la notte. Nessun discorso può sradicare anni di diffidenza, né si può rispondere nel tempo che ho tutte le complesse questioni che ci ha portato a questo punto. Ma io sono convinto che, al fine di andare avanti, dobbiamo dire apertamente le cose che abbiamo nei nostri cuori, e che troppo spesso si dice solo a porte chiuse. Ci deve essere uno sforzo di ascolto gli uni agli altri, per imparare gli uni dagli altri, a rispettare l'un l'altro e di cercare un terreno comune.

Come il Santo Corano ci dice, "Siate consapevoli di Dio e di parlare sempre la verità." Questo è ciò che io cerco di fare - per dire la verità, come migliore che posso, umiliato dalla compito davanti a noi, e fermo nella mia convinzione che gli interessi che condividiamo in quanto esseri umani sono di gran lunga più potente delle forze che ci spingono oltre. Parte di questa convinzione è radicata nella mia stessa esperienza. Sono un cristiano, ma mio padre proveniva da una famiglia che comprende Kenya generazioni di musulmani. Come un ragazzo, ho trascorso diversi anni in Indonesia e sentito la chiamata del azaan alla rottura di alba e la caduta del crepuscolo. Da giovane, ho lavorato a Chicago dove molte comunità trovato la dignità e la pace nel loro fede musulmana. Come uno studente di storia, so anche civiltà del debito per l'Islam. E 'stato l'Islam - in luoghi come Al-Azhar University - che hanno trasportato alla luce di apprendimento attraverso tanti secoli, spianando la strada per l'Europa del Rinascimento e Illuminismo. E 'stata l'innovazione nelle comunità musulmane che hanno sviluppato l'ordine di algebra; nostra bussola magnetica e gli strumenti di navigazione; nostra padronanza di penne e di stampa; la nostra comprensione di come la malattia si diffonde e come può essere guarito. Cultura islamica ci ha dato maestosi archi e svettanti guglie; tempo amate la musica e la poesia; calligrafia elegante e luoghi di contemplazione pacifica. E nel corso della storia, l'islam ha dimostrato attraverso le parole ei fatti le possibilità di tolleranza religiosa e razziale.

So anche, che l'Islam è sempre stata una parte della storia d'America. La prima nazione a riconoscere il mio paese è il Marocco. Nel firmare il trattato di Tripoli nel 1796, secondo il nostro presidente John Adams ha scritto: "Gli Stati Uniti non ha in sé il carattere di inimicizia contro le leggi, la religione o la tranquillità dei musulmani". E poiché il nostro fondatore, musulmani americani hanno arricchito gli Stati Uniti. Hanno combattuto nelle nostre guerre, servito al governo, era per i diritti civili, ha iniziato le imprese, ha insegnato presso la nostra Università, l'eccellenza nelle nostre arene sportive, ha vinto il premio Nobel, il nostro più alto edificio costruito, e accende la torcia olimpica. E quando il primo musulmano-americano è stato recentemente eletto al Congresso, che ha prestato giuramento di difendere la nostra Costituzione che utilizzano la stessa Santo Corano che uno dei nostri padri fondatori - Thomas Jefferson - conservati nella sua biblioteca personale. Così ho conosciuto l'Islam in tre continenti prima di venire alla regione in cui è stato rivelato prima. Tale esperienza guida la mia convinzione che la partnership tra America e Islam deve essere basata su ciò che l'Islam è, non ciò che non lo è. E ritengo che la mia parte di responsabilità in qualità di Presidente degli Stati Uniti per lottare contro gli stereotipi negativi di Islam, ovunque vengano visualizzati. Ma lo stesso principio deve applicarsi ai musulmani d'America percezioni. Proprio come i musulmani non possono essere inserite uno stereotipo greggio, l'America non è il greggio stereotipo di un auto-interessati impero. Gli Stati Uniti è stato uno dei più importanti fonti di progresso che il mondo abbia mai conosciuto. Siamo nati dalla rivoluzione nei confronti di un impero. Ci sono state fondate su ideali che tutti sono creati uguali, e abbiamo versato il sangue e ha lottato per secoli per dare un senso a quelle parole - entro i nostri confini, e in tutto il mondo. Siamo da ogni forma di cultura, provenienti da ogni fine della Terra, e dedicato ad un semplice concetto: E pluribus unum: "Fuori di molti, uno".

Molto è stato fatto del fatto che un afro-americano con il nome di Barack Hussein Obama potrebbe essere eletto presidente. Ma la mia storia personale non è così unico nel suo genere. Il sogno di opportunità per tutte le persone non è vero per tutti venire in America, ma la sua promessa esiste per tutti coloro che vengono a nostre coste - che comprende quasi sette milioni di musulmani americani nel nostro paese, che oggi godono di reddito e di istruzione che sono superiori alla media. Inoltre, la libertà in America è indivisibile dalla libertà di praticare la propria religione. Questo è il motivo per cui vi è una moschea in ogni stato della nostra unione, e più di 1.200 moschee entro i nostri confini. Questo è il motivo per cui il governo americano si è recato in tribunale per tutelare il diritto delle donne e delle ragazze di indossare l'hijab, e di punire coloro che la negano.

L'Islam è una parte d'America. E credo che l'America tiene dentro di lei la verità che, indipendentemente da razza, religione o stazione di vita, tutti noi parti comuni aspirazioni - a vivere in pace e sicurezza, a ricevere un'istruzione e di lavorare con dignità, l'amore per le nostre famiglie, le nostre comunità, e il nostro Dio ". Queste cose che condividiamo. Questa è la speranza di tutta l'umanità. Naturalmente, riconoscendo la nostra comune umanità è solo l'inizio del nostro compito. Parole da sola non può soddisfare le esigenze della nostra gente. Queste esigenze saranno soddisfatte solo se agiamo con coraggio negli anni a venire, e se abbiamo capito che le sfide che abbiamo di fronte sono condivise, e la nostra incapacità di rispondere loro male tutti noi. Per abbiamo imparato dalla recente esperienza che quando un sistema finanziario indebolisce in un paese, la prosperità in tutto il mondo è fatto male. Quando una nuova influenza colpisce un essere umano, tutti sono a rischio. Quando una nazione persegue un arma nucleare, il rischio di attacco nucleare aumenti per tutte le nazioni. Quando gli estremisti violenti operare in un tratto di montagna, le persone sono in pericolo in un oceano. E quando innocenti in Bosnia e in Darfur sono stati abbattuti, che è una macchia sulla nostra coscienza collettiva. Questo è ciò che significa condividere questo mondo nel 21 ° secolo. Questa è la responsabilità che abbiamo gli uni agli altri come esseri umani. Si tratta di un difficile compito di abbracciare. Per la storia umana è stata spesso un record di nazioni e tribù soggiogare l'un l'altro per servire i propri interessi. Eppure, in questa nuova età, tali atteggiamenti sono auto-sconfitta. Data la nostra interdipendenza, di qualsiasi ordine mondiale che eleva una nazione o di un gruppo di persone con più di un altro inevitabilmente a fallire. Quindi, ciò che penso del passato, non dobbiamo essere prigionieri di esso. I nostri problemi vanno affrontati attraverso il partenariato, e il progresso deve essere condivisa. Ciò non significa che dobbiamo ignorare le fonti di tensione. Essa, infatti, suggerisce il contrario: dobbiamo far fronte a tali tensioni ortogonalmente.

E così in questo spirito, vorrei parlare più chiaramente e semplicemente come posso su alcune questioni specifiche che, a mio avviso dobbiamo finalmente affrontare insieme. La prima questione che dobbiamo affrontare è l'estremismo violento in tutte le sue forme. Ad Ankara, mi ha chiarito che l'America non è - e non lo sarà mai - in guerra con l'Islam. Ci sarà, comunque, inesorabilmente confrontarsi violenti estremisti che rappresentano una grave minaccia per la nostra sicurezza. Perché rifiutiamo la stessa cosa che la gente di tutte le fedi respingere: l'uccisione di innocenti, uomini, donne e bambini. Ed è il mio primo dovere in qualità di Presidente di proteggere il popolo americano. La situazione in Afghanistan dimostra America's obiettivi, e la nostra necessità di lavorare insieme. Più di sette anni fa, gli Stati Uniti hanno perseguito al Qaeda e dei talebani con un ampio sostegno internazionale. Non abbiamo scelta da fare, siamo andati a causa della necessità. Sono consapevole del fatto che qualche domanda o giustificare gli eventi del 9 / 11. Ma dobbiamo essere chiari: al-Qaeda ucciso quasi 3.000 persone che in quel giorno. Le vittime erano innocenti, uomini, donne e bambini provenienti da America e in molte altre nazioni che non aveva fatto nulla di male a nessuno. E ancora di Al-Qaeda ha deciso di omicidio spietatamente queste persone, ha affermato di credito per l'attacco, e anche ora la loro volontà di uccidere su larga scala. Essi hanno filiali in molti paesi e stanno cercando di espandere la loro portata. Queste non sono opinioni di essere discusso, che sono fatti per essere affrontati. Non si illuda: non vogliamo mantenere le nostre truppe in Afghanistan. Noi cerchiamo non si basi militari. E 'straziante per l'America a perdere i nostri giovani uomini e donne. E 'politicamente costoso e difficile continuare questo conflitto. Saremmo lieti di portare ogni singolo uno dei nostri soldati a casa se si potesse essere certi che non vi erano gli estremisti violenti in Afghanistan e in Pakistan determinati a uccidere il maggior numero di americani, in quanto possibile. Ma che non è ancora il caso. Questo è il motivo per cui stiamo collaborando con una coalizione di quaranta-sei paesi. E nonostante i costi, America's impegno non indebolire.

Infatti, nessuno di noi dovrebbe tollerare questi estremisti. Essi hanno ucciso in molti paesi. Essi hanno ucciso persone di fedi diverse - più di ogni altro, hanno ucciso i musulmani. Le loro azioni sono in contrasto con i diritti degli esseri umani, il progresso delle nazioni, e con l'Islam. Il Santo Corano insegna che chi uccide un innocente, è come se egli ha ucciso tutti gli uomini; e chi salva una persona, è come se egli ha salvato tutti gli uomini. La fede perenne di oltre un miliardo di persone è molto più ampia di quella ristretta odio di pochi. L'Islam non è parte del problema nella lotta contro l'estremismo violento - è una parte importante della promozione della pace. Sappiamo anche che la potenza militare da sola non è in corso per risolvere i problemi in Afghanistan e in Pakistan. Questo è il motivo per cui abbiamo in programma di investire ê1.5 miliardi di euro ogni anno per i prossimi cinque anni di collaborare con pakistani per costruire scuole e ospedali, strade e le imprese, e centinaia di milioni per aiutare coloro che sono stati sfollati. Ed è per questo che stiamo fornendo più di ê2.8 miliardi per aiutare gli afgani sviluppare la loro economia e di fornire servizi di persone che dipendono da. Vorrei anche affrontare la questione dell'Iraq. Diversamente l'Afghanistan, l'Iraq è una guerra di scelta che ha provocato forti differenze nel mio paese e in tutto il mondo. Anche se credo che il popolo iracheno, in ultima analisi, meglio, senza la tirannia di Saddam Hussein, credo anche che gli eventi in Iraq, ha ricordato l'America del bisogno di usare la diplomazia e costruire un consenso internazionale per risolvere i nostri problemi, quando possibile. Infatti, possiamo ricordare le parole di Thomas Jefferson, che ha detto: "Mi auguro che la nostra sapienza crescerà con il nostro potere, e ci insegnano che il meno che usiamo il nostro potere maggiore sarà." Oggi, l'America ha una duplice responsabilità: per aiutare l'Iraq a creare un futuro migliore - e di lasciare l'Iraq agli iracheni. Ho messo in chiaro per il popolo iracheno che perseguiamo senza basi, e non hanno la pretesa sul loro territorio o di risorse. Iraq, la sovranità è propria. Questo è il motivo per cui ho ordinato la rimozione del nostro combattere brigate entro il prossimo agosto. Questo è il motivo per cui ci impegniamo il nostro accordo con l'Iraq del governo democraticamente eletto per rimuovere la lotta contro le truppe irachene da città entro il mese di luglio, e per rimuovere tutte le nostre truppe dall'Iraq entro il 2012.

Vi aiuteremo Iraq treno sue forze di sicurezza e di sviluppare la sua economia. Ma noi sostenere un Iraq unito e sicuro come un partner, e mai come patrono. E infine, come l'America non può tollerare la violenza da parte di estremisti, non dobbiamo mai alterare i nostri principi. 9 / 11 è stato un enorme trauma per il nostro paese. La paura e la rabbia che ha provocato è stato comprensibile, ma in alcuni casi, ci ha portato ad agire contro i nostri ideali. Stiamo prendendo misure concrete per cambiare rotta. Ho inequivocabilmente vietati l'uso della tortura da parte degli Stati Uniti, e ho ordinato il carcere di Guantanamo Bay chiuso entro i primi mesi del prossimo anno. Così l'America difendersi rispettosa della sovranità delle nazioni e lo Stato di diritto. E lo faremo in collaborazione con le comunità musulmane che sono anche minacciati. La prima sono gli estremisti isolati e sgradite in comunità musulmane, il più presto saremo tutti più sicuri. La seconda grande fonte di tensione che abbiamo bisogno di discutere è la situazione tra israeliani, palestinesi e il mondo arabo. America's forti legami con Israele, sono ben noti. Questo legame è indistruttibile. Essa si basa su legami culturali e storici, e il riconoscimento del fatto che l'aspirazione di una patria ebraica è radicata in una storia tragica che non può essere negato.

In tutto il mondo, il popolo ebraico sono stati perseguitati per secoli, e l'antisemitismo in Europa senza precedenti, culminata in olocausto. Domani si recherà in visita di Buchenwald, che è stato parte di una rete di campi in cui gli ebrei erano gli schiavi, torturati, fucilati e gassato a morte per il Terzo Reich. Sei milioni di ebrei sono stati uccisi - più di tutta la popolazione ebraica di Israele oggi. Negare che il fatto è infondata, ignorante, e di odio. Israele minaccia di distruzione - o ripetere vile stereotipi sugli ebrei - è profondamente sbagliato, e serve solo ad evocare, nella mente degli israeliani questo più dolorosa di memorie, evitando la pace che il popolo di questa regione meritano. D'altro canto, è anche innegabile che il popolo palestinese - cristiani e musulmani - hanno subito in cerca di una patria. Per più di sessanta anni hanno sopportato il dolore di dislocazione. Molti attendere nei campi profughi in Cisgiordania, a Gaza, e le terre vicine per una vita di pace e di sicurezza che non sono mai stati in grado di portare. Essi sopportare le umiliazioni quotidiane - grandi e piccole - che vengono con l'occupazione. Quindi ci deve essere alcun dubbio: la situazione per il popolo palestinese è intollerabile. America non voltare le spalle alla legittima aspirazione palestinese per la dignità, le opportunità, e uno stato di loro. Per decenni, vi è stata una situazione di stallo: due popoli, con le legittime aspirazioni, ciascuno con una storia che rende doloroso compromesso inafferrabile. E 'facile puntare il dito - per i palestinesi a punto per lo spostamento proposto dalla fondazione di Israele, per gli israeliani e per il costante punto di ostilità e gli attacchi in tutta la sua storia dal di dentro i suoi confini e oltre.

Ma se vediamo questo conflitto solo da un lato o l'altro, poi ci sarà ciechi alla verità: la risoluzione è solo per le aspirazioni di entrambe le parti che devono essere soddisfatte attraverso due Stati, dove israeliani e palestinesi di ogni vivere in pace e sicurezza . Questo è l'interesse di Israele, la Palestina ha interesse, l'America ha interesse, e l'interesse del mondo. Questo è il motivo per cui personalmente ho intenzione di perseguire questo risultato con tutta la pazienza che il compito richiede. Gli obblighi che le parti hanno convenuto di sotto la tabella di marcia è chiara. Per la pace a venire, è il momento per loro - e tutti noi - di fronte alle nostre responsabilità. Palestinesi devono rinunciare alla violenza. Resistenza attraverso la violenza e l'uccisione è sbagliato e non riesce. Per secoli, neri in America subito la frusta della frusta come schiavi e l'umiliazione di segregazione. Ma non era la violenza che ha vinto e la piena parità di diritti. E 'stata una soluzione pacifica e determinata insistenza su ideali al centro di America's fondatori. La stessa storia può essere raccontata da persone provenienti da Sud Africa per l'Asia meridionale; da Europa orientale in Indonesia. E 'una storia con una semplice verità: che la violenza è un vicolo cieco. E 'un segno di coraggio, né il potere né di sparare razzi a dormire i bambini, o far saltare vecchi donne su un autobus. Questo non è come autorità morale è richiesto; è così che si rinuncia.

Adesso è il momento per i palestinesi a concentrarsi su quello che si può costruire. L'Autorità palestinese deve sviluppare la sua capacità di governare, con le istituzioni che servono i bisogni del suo popolo. Hamas non hanno il supporto di alcuni palestinesi, ma hanno anche delle responsabilità. Per svolgere un ruolo nel soddisfare le aspirazioni palestinesi, e di unificare il popolo palestinese, Hamas deve porre fine alla violenza, riconoscere gli accordi precedenti, e riconoscere il diritto di Israele ad esistere. Allo stesso tempo, Israele deve riconoscere che, così come il diritto di Israele ad esistere non può essere negato, né può Palestina. Gli Stati Uniti non accettano la legittimità delle continuato insediamenti israeliani. Questa costruzione viola accordi precedenti e mina gli sforzi per raggiungere la pace. E 'giunto il momento per questi insediamenti di smettere. Israele deve vivere anche fino a suoi obblighi al fine di garantire che i palestinesi possano vivere e lavorare, e di sviluppare le loro società. E come si devasta famiglie palestinesi, continua la crisi umanitaria a Gaza non serve la sicurezza di Israele, né la mancanza di opportunità in Cisgiordania. I progressi nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte di una strada per la pace, e Israele deve compiere passi concreti per permettere a questi progressi.

Infine, gli Stati arabi devono riconoscere che l'iniziativa araba di pace è stato un inizio importante, ma non la fine della loro responsabilità. Il conflitto arabo-israeliano non deve più essere usato per distrarre le persone di nazioni arabe da altri problemi. Invece, deve essere un motivo di intervenire per aiutare il popolo palestinese sviluppare le istituzioni che sostengono il loro stato, a riconoscere la legittimità di Israele, e di scegliere i progressi nel corso di un auto-sconfiggere concentrarsi sul passato. America allineare le nostre politiche con quelle che perseguono la pace, e dire in pubblico quello che si dice in privato a israeliani e palestinesi e arabi. Non possiamo imporre la pace. Ma privatamente, molti musulmani riconoscono che Israele non scomparirà. Allo stesso modo, molti israeliani riconoscere la necessità di uno Stato palestinese. E 'giunto il momento per noi di agire su ciò che tutti sanno di essere vero. Troppe sono le lacrime scorrevano. Troppo sangue è stato versato. Tutti noi abbiamo la responsabilità di lavorare per il giorno in cui le madri di israeliani e palestinesi possono vedere i loro figli crescere senza paura, quando la Terra Santa, di tre grandi fedi è il luogo di pace, che Dio ha destinato ad essere, quando Gerusalemme è un collegamento sicuro e duraturo casa per gli ebrei ei cristiani e musulmani, e un luogo per tutti i figli di Abramo a mescolarsi tranquillamente insieme, come nella storia di Isra, quando Mosè, Gesù e Maometto (la pace sia su di loro) si è unito in preghiera. La terza fonte di tensione è il nostro interesse condiviso nei diritti e le responsabilità delle nazioni sulle armi nucleari. Questo problema è stato una fonte di tensione tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica d'Iran.

Per molti anni, l'Iran ha definito se stesso, in parte, la sua opposizione al mio paese, e non vi è infatti una tumultuosa storia tra di noi. Nel mezzo della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo nel rovesciamento di un democraticamente eletto governo iraniano. Poiché la rivoluzione islamica, l'Iran ha svolto un ruolo in atti di presa di ostaggi e la violenza contro le truppe degli Stati Uniti e civili. Questa storia è ben nota. Piuttosto che rimanere intrappolati nel passato, ho messo in chiaro all'Iran i leader e le persone che il mio paese è pronto ad andare avanti. La questione, adesso, non è ciò che è contro l'Iran, ma quale futuro si vuole costruire. Sarà difficile superare decenni di sfiducia, ma si procederà con coraggio, rettitudine e risolvere. Ci saranno molte questioni per discutere tra i nostri due paesi, e siamo disposti ad andare avanti senza precondizioni, sulla base del rispetto reciproco. Ma è chiaro a tutti gli interessati che, quando si tratta di armi nucleari, che abbiamo raggiunto un punto decisivo. Non si tratta semplicemente di circa America's interessi. Si tratta di impedire una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente, che potrebbe portare questa regione e il mondo in un percorso estremamente pericolose. Ho capito chi protesta che alcuni paesi hanno armi che altri non lo fanno. Nessuna nazione deve scegliere le nazioni che detengono armi nucleari. Questo è il motivo per cui l'America ha ribadito con forza l'impegno a cercare un mondo in cui le nazioni non detengono armi nucleari. E ogni nazione - compreso l'Iran - dovrebbe avere il diritto di accesso pacifico dell'energia nucleare, se è conforme alle sue responsabilità nell'ambito del Trattato di non proliferazione nucleare. Tale impegno è al centro del trattato, e deve essere conservato per tutti coloro che si attengono pienamente. E mi auguro che tutti i paesi della regione possono condividere in questo obiettivo.

La quarta questione che mi indirizzo è democrazia. So che ci sono state polemiche sulla promozione della democrazia in questi ultimi anni e gran parte di questa controversia è connesso alla guerra in Iraq. Quindi, permettetemi di essere chiari: nessun sistema di governo possa o debba essere inflitta ad una nazione da ogni altra. Ciò non sminuisce il mio impegno, tuttavia, ai governi che riflettono la volontà del popolo. Ogni nazione dà vita a questo principio, a suo modo, a terra nelle tradizioni del suo popolo. America non pretende di sapere che cosa è meglio per tutti, così come non abbiamo la presunzione di cogliere il risultato di una pacifica elezione. Ma io non sono uno irriducibile convinzione che tutte le persone che bramano per alcune cose: la capacità di parlare la vostra mente e hanno qualcosa da dire nel modo in cui si sono disciplinati, la fiducia nello Stato di diritto e la parità di amministrazione della giustizia; governo che sia trasparente e non può essere 't rubare da parte dei cittadini, la libertà di vivere come si sceglie. Queste sono le idee e non solo americani, che sono i diritti umani, ed è per questo che li sosterrà in tutto il mondo. Non vi è alcuna linea retta per realizzare questa promessa. Ma questo è molto chiaro: i governi che proteggono questi diritti sono, in definitiva, più stabile, efficace e sicuro. Sopprimere le idee non riesce a farli andare via.

America rispetta il diritto di tutti i pacifici e rispettosi della legge voce di essere ascoltata in tutto il mondo, anche se non siamo d'accordo con loro. E ci sarà il benvenuto a tutti eletti, governi pacifica - a condizione che disciplinano il rispetto per tutti con la loro gente. Questo ultimo punto è importante perché ci sono alcuni che difendono la democrazia solo quando sono fuori di potere e, una volta al potere, sono spietati nel reprimere i diritti degli altri. Non importa dove si prende possesso, il governo del popolo e dal popolo definisce uno standard unico per tutti coloro che detengono il potere: si deve mantenere il vostro potere attraverso il consenso, non coercizione; è necessario rispettare i diritti delle minoranze, e di partecipare con uno spirito di tolleranza e del compromesso; si deve porre gli interessi del suo popolo e del legittimo funzionamento del processo politico di cui sopra il suo partito. Senza questi ingredienti, le elezioni da sole non fanno una vera democrazia.

La quinta questione che dobbiamo affrontare insieme è la libertà religiosa. L'Islam ha una fiera tradizione di tolleranza. Lo vediamo nella storia di Andalusia e Cordoba durante l'Inquisizione. Ho visto che in prima persona, come un bambino in Indonesia, dove devoti cristiani adorato liberamente in un paese a schiacciante maggioranza musulmana. Questo è lo spirito abbiamo bisogno oggi. La gente in ogni paese dovrebbero essere liberi di scegliere e vivere la loro fede basata sulla persuasione della mente, il cuore e l'anima. Tale tolleranza è essenziale per la religione a prosperare, ma si è messo in discussione, in molti modi diversi. Tra alcuni musulmani, vi è una preoccupante tendenza a misurare la propria fede con il rifiuto di un altro. La ricchezza della diversità religiosa deve essere accolta - se si tratta dei Maroniti in Libano o il copti in Egitto. E la colpa deve essere chiuso tra i musulmani, come pure, come le divisioni tra sunniti e sciiti hanno portato alla tragica violenza, in particolare in Iraq. La libertà di religione è un elemento centrale per la capacità dei popoli di vivere insieme. Dobbiamo sempre esaminare i modi in cui ci proteggono. Ad esempio, negli Stati Uniti, le norme sulla carità che hanno reso più difficile per i musulmani ad adempiere i loro obblighi religiosi. Questo è il motivo per cui mi sono impegnato a lavorare con i musulmani americani al fine di garantire che essi possono compiere zakat. Allo stesso modo, è importante per i paesi occidentali per evitare di ostacolare i cittadini musulmani di praticare la religione come ritengono opportuno - per esempio, da quello che vestiti dettare una donna musulmana deve indossare. Non siamo in grado di mascherare l'ostilità nei confronti di ogni religione dietro la scusa del liberalismo. Infatti, la fede deve portarci insieme. Questo è il motivo per cui ci sono la creazione di progetti di servizio in America, che mettono insieme i cristiani, musulmani ed ebrei. Questo è il motivo per cui accogliamo con favore gli sforzi per l'Arabia Saudita come il re Abdullah di dialogo interreligioso e della Turchia leadership nel Alleanza delle civiltà. In tutto il mondo, siamo in grado di girare il dialogo interreligioso in servizio, in modo ponti tra i popoli portare ad azione - se si tratta di lotta contro la malaria in Africa, o la fornitura di sollievo dopo una catastrofe naturale.

La sesta questione che vorrei affrontare è quello dei diritti delle donne. So che vi è dibattito su questo problema. Respingo l'opinione di alcuni in Occidente che una donna che sceglie di coprire i capelli è in qualche modo meno uguale, ma credo che una donna che è negata l'istruzione è negata la parità. E non è un caso che i paesi in cui le donne sono ben istruiti sono di gran lunga maggiori probabilità di essere prospero. Ora vorrei essere chiaro: le questioni di uguaglianza delle donne non sono semplicemente un problema per l'Islam. In Turchia, Pakistan, Bangladesh e Indonesia, che abbiamo visto paesi a maggioranza musulmana eleggere una donna a guidare. Nel frattempo, la lotta per l'uguaglianza delle donne continua in molti aspetti della vita americana, e nei paesi in tutto il mondo. Le nostre figlie possano contribuire così come per la società quanto più i nostri figli, e la nostra prosperità comune verranno avanzate consentendo tutta l'umanità - uomini e donne - per raggiungere il loro pieno potenziale. Non credo che le donne devono fare le stesse scelte, come gli uomini, al fine di essere uguali, e io rispetto le donne che scelgono di vivere la loro vita in ruoli tradizionali. Ma non dovrebbe essere loro scelta. Questo è il motivo per cui gli Stati Uniti partner con qualsiasi paese a maggioranza musulmana ampliato per sostenere l'alfabetizzazione per le ragazze, e per aiutare le giovani donne perseguire l'occupazione attraverso micro-finanziamento che aiuta le persone a vivere i loro sogni. Infine, vorrei discutere di sviluppo economico e di opportunità. So che per molti, di fronte alla globalizzazione è contraddittoria. Internet e la televisione può portare la conoscenza e l'informazione, ma anche offensivo sessualità e violenza. Il commercio può portare nuova ricchezza e di opportunità, ma anche enormi disagi e mutevole comunità. In tutte le nazioni - tra cui il mio - questo cambiamento può portare la paura. Paura che, a causa della modernità ci si perde di controllo sulle nostre scelte economiche, la nostra politica e, soprattutto, la nostra identità - quelle cose che abbiamo più a cuore la nostra comunità, le nostre famiglie, le nostre tradizioni, e la nostra fede.

Ma so anche che il progresso umano non può essere negato. Ci non hanno bisogno di essere contraddizione tra sviluppo e tradizione. Paesi come il Giappone e la Corea del Sud è cresciuta loro economie, mantenendo distinte culture. Lo stesso vale per i sorprendenti progressi in paesi a maggioranza musulmana da Kuala Lumpur a Dubai. Nei tempi antichi e nel nostro tempo, le comunità musulmane sono state in prima linea di innovazione e di istruzione. Questo è importante perché la strategia di sviluppo non può essere basata solo su ciò che esce dalla terra, né può essere sostenuta, mentre i giovani sono senza lavoro. Molti Stati del Golfo hanno goduto di grande ricchezza, di conseguenza, di olio, e alcuni stanno iniziando a concentrarsi sul più ampio sviluppo. Ma tutti noi dobbiamo riconoscere che l'istruzione e l'innovazione sarà la moneta del 21 ° secolo, e in troppi comunità musulmane ci resta investimenti in questi settori. Sono sottolineando tali investimenti all'interno del mio paese. E l'America, mentre in passato si è concentrata sulle riserve di petrolio e di gas in questa parte del mondo, ora cercare un impegno più ampio. In materia di istruzione, che si espanderà programmi di scambio, e di aumentare le borse di studio, come quella che ha portato mio padre in America, incoraggiando al tempo stesso più americani di studiare in comunità musulmane. E noi aggiungeremo il promettenti studenti musulmani con stage in America; investire in apprendimento on-line per insegnanti e bambini di tutto il mondo e creare una nuova rete on-line, in modo un adolescente in Kansas in grado di comunicare istantaneamente con un adolescente al Cairo. Sullo sviluppo economico, si creerà un nuovo corpo di volontari per partner d'affari con le controparti in paesi a maggioranza musulmana. E mi ospiterà un vertice sulla imprenditorialità questo anno di individuare in che modo possiamo approfondire i legami tra le imprese leader, le fondazioni e imprenditori sociali negli Stati Uniti e le comunità musulmane di tutto il mondo. In materia di scienza e tecnologia, che lancerà un nuovo fondo per sostenere lo sviluppo tecnologico nei paesi a maggioranza musulmana, e per contribuire al trasferimento delle idee per il mercato in modo che possano creare posti di lavoro. Si aprirà centri di eccellenza scientifica in Africa, il Medio Oriente e Sud-Est asiatico, e nomina nuovo Scienza inviati a collaborare a programmi che lo sviluppo di nuove fonti di energia, di creare posti di lavoro verdi, digitalizzare i documenti, acqua pulita, e di sviluppare nuove colture. E oggi mi annunciava un nuovo sforzo globale con l'Organizzazione della Conferenza islamica per debellare la poliomielite. E ci sarà anche ampliare i partenariati con le comunità musulmane a promuovere la salute infantile e materna. Tutte queste cose devono essere effettuate in collaborazione. Gli americani sono pronti a unirsi con i cittadini e dei governi; organizzazioni della comunità, i leader religiosi, e le imprese in comunità musulmane di tutto il mondo per aiutare i nostri cittadini perseguire una vita migliore.

Le questioni che ho descritto, non sarà facile da affrontare. Ma abbiamo la responsabilità di unirsi a nome del mondo si cercano - un mondo in cui gli estremisti non sono più una minaccia per il nostro popolo, e le truppe americane sono venuti a casa; un mondo in cui gli israeliani ei palestinesi sono sicuro ciascuna in uno stato di loro, e l'energia nucleare è utilizzata per scopi pacifici; un mondo in cui i governi servire i propri cittadini, e dei diritti di tutti i figli di Dio siano rispettati. Questi sono interessi reciproci. Questo è il mondo che cerchiamo. Ma possiamo raggiungere solo insieme. So che ci sono molti - musulmani e non musulmani - che se siamo in grado di creare questo nuovo inizio. Alcuni sono desiderosi di alimentare le fiamme della divisione, e ad ostacolare i progressi. Alcuni sostengono che non vale la pena lo sforzo - che siamo in disaccordo fatale, e le civiltà sono destinate a scontrarsi. Molti sono semplicemente più scettici che il cambiamento reale può verificarsi. C'è così tanto paura, tanta sfiducia. Ma se abbiamo scelto di essere vincolati dal passato, non potremo mai andare avanti. E voglio dire questo in particolare per i giovani di ogni fede, in ogni paese - si, più di chiunque altro, hanno la capacità di remake questo mondo. Tutte le parti di noi questo mondo, ma per un breve istante di tempo. La questione è se vogliamo che spendere tempo concentrata su quello che ci spinge oltre, o se ci impegniamo a uno sforzo - uno sforzo - di trovare un terreno comune, per concentrarsi sul futuro vogliamo per i nostri figli, e di rispettare la dignità della tutti gli esseri umani. E 'più facile per iniziare guerre che a loro fine. E 'più facile incolpare gli altri quello di guardare dentro, per vedere ciò che è diverso in merito a trovare qualcuno che le cose che noi condividiamo. Ma dobbiamo scegliere la strada giusta, non solo il percorso facile. Vi è anche una regola che si trova al centro di ogni religione - che facciamo agli altri, come avremmo loro fare a noi. Questa verità trascende nazioni e dei popoli - una convinzione che non è nuovo, che non è bianco o nero o marrone, che non è cristiana o musulmana o Ebreo. E 'una convinzione che impulsiva nella culla della civiltà, e che ancora batte nel cuore di miliardi. Si tratta di una fede in altre persone, ed è ciò che mi ha portato qui oggi.

Abbiamo il potere di rendere il mondo si cercano, ma solo se abbiamo il coraggio di fare un nuovo inizio, tenendo conto di ciò che è stato scritto. Il Santo Corano ci dice, "O uomini, vi abbiamo creati maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù affinché possiate conoscere gli uni gli altri". Il Talmud ci dice: "L'intera Torà è a scopo di promuovere la pace". La Sacra Bibbia ci dice: "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio". La gente del mondo possano vivere insieme in pace. Sappiamo che è Dio, la visione. Ora, che deve essere il nostro lavoro qui sulla Terra. Grazie. E possa Dio della pace sia su di voi.

04 giugno 2009

English

I am honored to be in the timeless city of Cairo, and to be hosted by two remarkable institutions. For over a thousand years, Al-Azhar has stood as a beacon of Islamic learning, and for over a century, Cairo University has been a source of Egypt's advancement. Together, you represent the harmony between tradition and progress. I am grateful for your hospitality, and the hospitality of the people of Egypt. I am also proud to carry with me the goodwill of the American people, and a greeting of peace from Muslim communities in my country: assalaamu alaykum.

"We meet at a time of tension between the United States and Muslims around the world – tension rooted in historical forces that go beyond any current policy debate. The relationship between Islam and the West includes centuries of co-existence and cooperation, but also conflict and religious wars. More recently, tension has been fed by colonialism that denied rights and opportunities to many Muslims, and a Cold War in which Muslim-majority countries were too often treated as proxies without regard to their own aspirations.

Moreover, the sweeping change brought by modernity and globalization led many Muslims to view the West as hostile to the traditions of Islam. Violent extremists have exploited these tensions in a small but potent minority of Muslims. The attacks of September 11th, 2001 and the continued efforts of these extremists to engage in violence against civilians has led some in my country to view Islam as inevitably hostile not only to America and Western countries, but also to human rights. This has bred more fear and mistrust. So long as our relationship is defined by our differences, we will empower those who sow hatred rather than peace, and who promote conflict rather than the cooperation that can help all of our people achieve justice and prosperity. This cycle of suspicion and discord must end. I have come here to seek a new beginning between the United States and Muslims around the world; one based upon mutual interest and mutual respect; and one based upon the truth that America and Islam are not exclusive, and need not be in competition. Instead, they overlap, and share common principles – principles of justice and progress; tolerance and the dignity of all human beings. I do so recognizing that change cannot happen overnight. No single speech can eradicate years of mistrust, nor can I answer in the time that I have all the complex questions that brought us to this point. But I am convinced that in order to move forward, we must say openly the things we hold in our hearts, and that too often are said only behind closed doors. There must be a sustained effort to listen to each other; to learn from each other; to respect one another; and to seek common ground.

As the Holy Koran tells us, "Be conscious of God and speak always the truth." That is what I will try to do – to speak the truth as best I can, humbled by the task before us, and firm in my belief that the interests we share as human beings are far more powerful than the forces that drive us apart. Part of this conviction is rooted in my own experience. I am a Christian, but my father came from a Kenyan family that includes generations of Muslims. As a boy, I spent several years in Indonesia and heard the call of the azaan at the break of dawn and the fall of dusk. As a young man, I worked in Chicago communities where many found dignity and peace in their Muslim faith. As a student of history, I also know civilization's debt to Islam. It was Islam – at places like Al-Azhar University – that carried the light of learning through so many centuries, paving the way for Europe's Renaissance and Enlightenment. It was innovation in Muslim communities that developed the order of algebra; our magnetic compass and tools of navigation; our mastery of pens and printing; our understanding of how disease spreads and how it can be healed. Islamic culture has given us majestic arches and soaring spires; timeless poetry and cherished music; elegant calligraphy and places of peaceful contemplation. And throughout history, Islam has demonstrated through words and deeds the possibilities of religious tolerance and racial equality.

I know, too, that Islam has always been a part of America's story. The first nation to recognize my country was Morocco. In signing the Treaty of Tripoli in 1796, our second President John Adams wrote, "The United States has in itself no character of enmity against the laws, religion or tranquility of Muslims." And since our founding, American Muslims have enriched the United States. They have fought in our wars, served in government, stood for civil rights, started businesses, taught at our Universities, excelled in our sports arenas, won Nobel Prizes, built our tallest building, and lit the Olympic Torch. And when the first Muslim-American was recently elected to Congress, he took the oath to defend our Constitution using the same Holy Koran that one of our Founding Fathers – Thomas Jefferson – kept in his personal library. So I have known Islam on three continents before coming to the region where it was first revealed. That experience guides my conviction that partnership between America and Islam must be based on what Islam is, not what it isn't. And I consider it part of my responsibility as President of the United States to fight against negative stereotypes of Islam wherever they appear. But that same principle must apply to Muslim perceptions of America. Just as Muslims do not fit a crude stereotype, America is not the crude stereotype of a self-interested empire. The United States has been one of the greatest sources of progress that the world has ever known. We were born out of revolution against an empire. We were founded upon the ideal that all are created equal, and we have shed blood and struggled for centuries to give meaning to those words – within our borders, and around the world. We are shaped by every culture, drawn from every end of the Earth, and dedicated to a simple concept: E pluribus unum: "Out of many, one."

Much has been made of the fact that an African-American with the name Barack Hussein Obama could be elected President. But my personal story is not so unique. The dream of opportunity for all people has not come true for everyone in America, but its promise exists for all who come to our shores – that includes nearly seven million American Muslims in our country today who enjoy incomes and education that are higher than average. Moreover, freedom in America is indivisible from the freedom to practice one's religion. That is why there is a mosque in every state of our union, and over 1,200 mosques within our borders. That is why the U.S. government has gone to court to protect the right of women and girls to wear the hijab, and to punish those who would deny it.

Islam is a part of America. And I believe that America holds within her the truth that regardless of race, religion or station in life, all of us share common aspirations – to live in peace and security; to get an education and to work with dignity; to love our families, our communities, and our God. These things we share. This is the hope of all humanity. Of course, recognizing our common humanity is only the beginning of our task. Words alone cannot meet the needs of our people. These needs will be met only if we act boldly in the years ahead; and if we understand that the challenges we face are shared, and our failure to meet them will hurt us all. For we have learned from recent experience that when a financial system weakens in one country, prosperity is hurt everywhere. When a new flu infects one human being, all are at risk. When one nation pursues a nuclear weapon, the risk of nuclear attack rises for all nations. When violent extremists operate in one stretch of mountains, people are endangered across an ocean. And when innocents in Bosnia and Darfur are slaughtered, that is a stain on our collective conscience. That is what it means to share this world in the 21st century. That is the responsibility we have to one another as human beings. This is a difficult responsibility to embrace. For human history has often been a record of nations and tribes subjugating one another to serve their own interests. Yet in this new age, such attitudes are self-defeating. Given our interdependence, any world order that elevates one nation or group of people over another will inevitably fail. So whatever we think of the past, we must not be prisoners of it. Our problems must be dealt with through partnership; progress must be shared. That does not mean we should ignore sources of tension. Indeed, it suggests the opposite: we must face these tensions squarely.

And so in that spirit, let me speak as clearly and plainly as I can about some specific issues that I believe we must finally confront together. The first issue that we have to confront is violent extremism in all of its forms. In Ankara, I made clear that America is not – and never will be – at war with Islam. We will, however, relentlessly confront violent extremists who pose a grave threat to our security. Because we reject the same thing that people of all faiths reject: the killing of innocent men, women, and children. And it is my first duty as President to protect the American people. The situation in Afghanistan demonstrates America's goals, and our need to work together. Over seven years ago, the United States pursued al Qaeda and the Taliban with broad international support. We did not go by choice, we went because of necessity. I am aware that some question or justify the events of 9/11. But let us be clear: al Qaeda killed nearly 3,000 people on that day. The victims were innocent men, women and children from America and many other nations who had done nothing to harm anybody. And yet Al Qaeda chose to ruthlessly murder these people, claimed credit for the attack, and even now states their determination to kill on a massive scale. They have affiliates in many countries and are trying to expand their reach. These are not opinions to be debated; these are facts to be dealt with. Make no mistake: we do not want to keep our troops in Afghanistan. We seek no military bases there. It is agonizing for America to lose our young men and women. It is costly and politically difficult to continue this conflict. We would gladly bring every single one of our troops home if we could be confident that there were not violent extremists in Afghanistan and Pakistan determined to kill as many Americans as they possibly can. But that is not yet the case. That's why we're partnering with a coalition of forty-six countries. And despite the costs involved, America's commitment will not weaken.

Indeed, none of us should tolerate these extremists. They have killed in many countries. They have killed people of different faiths – more than any other, they have killed Muslims. Their actions are irreconcilable with the rights of human beings, the progress of nations, and with Islam. The Holy Koran teaches that whoever kills an innocent, it is as if he has killed all mankind; and whoever saves a person, it is as if he has saved all mankind. The enduring faith of over a billion people is so much bigger than the narrow hatred of a few. Islam is not part of the problem in combating violent extremism – it is an important part of promoting peace. We also know that military power alone is not going to solve the problems in Afghanistan and Pakistan. That is why we plan to invest ê1.5 billion each year over the next five years to partner with Pakistanis to build schools and hospitals, roads and businesses, and hundreds of millions to help those who have been displaced. And that is why we are providing more than ê2.8 billion to help Afghans develop their economy and deliver services that people depend upon. Let me also address the issue of Iraq. Unlike Afghanistan, Iraq was a war of choice that provoked strong differences in my country and around the world. Although I believe that the Iraqi people are ultimately better off without the tyranny of Saddam Hussein, I also believe that events in Iraq have reminded America of the need to use diplomacy and build international consensus to resolve our problems whenever possible. Indeed, we can recall the words of Thomas Jefferson, who said: "I hope that our wisdom will grow with our power, and teach us that the less we use our power the greater it will be." Today, America has a dual responsibility: to help Iraq forge a better future – and to leave Iraq to Iraqis. I have made it clear to the Iraqi people that we pursue no bases, and no claim on their territory or resources. Iraq's sovereignty is its own. That is why I ordered the removal of our combat brigades by next August. That is why we will honor our agreement with Iraq's democratically-elected government to remove combat troops from Iraqi cities by July, and to remove all our troops from Iraq by 2012.

We will help Iraq train its Security Forces and develop its economy. But we will support a secure and united Iraq as a partner, and never as a patron. And finally, just as America can never tolerate violence by extremists, we must never alter our principles. 9/11 was an enormous trauma to our country. The fear and anger that it provoked was understandable, but in some cases, it led us to act contrary to our ideals. We are taking concrete actions to change course. I have unequivocally prohibited the use of torture by the United States, and I have ordered the prison at Guantanamo Bay closed by early next year. So America will defend itself respectful of the sovereignty of nations and the rule of law. And we will do so in partnership with Muslim communities which are also threatened. The sooner the extremists are isolated and unwelcome in Muslim communities, the sooner we will all be safer. The second major source of tension that we need to discuss is the situation between Israelis, Palestinians and the Arab world. America's strong bonds with Israel are well known. This bond is unbreakable. It is based upon cultural and historical ties, and the recognition that the aspiration for a Jewish homeland is rooted in a tragic history that cannot be denied.

Around the world the Jewish people were persecuted for centuries, and anti-semitism in Europe culminated in unprecedented holocaust. Tomorrow I will visit Buchenwald, which was part of a network of camps where Jews were enslaved, tortured, shot and gassed to death by the Third Reich. Six million Jews were killed – more than the entire Jewish population of Israel today. Denying that fact is baseless, ignorant, and hateful. Threatening Israel with destruction – or repeating vile stereotypes about Jews – is deeply wrong, and only serves to evoke in the minds of Israelis this most painful of memories while preventing the peace that the people of this region deserve. On the other hand, it is also undeniable that the Palestinian people – Muslims and Christians – have suffered in pursuit of a homeland. For more than sixty years they have endured the pain of dislocation. Many wait in refugee camps in the West Bank, Gaza, and neighboring lands for a life of peace and security that they have never been able to lead. They endure the daily humiliations – large and small – that come with occupation. So let there be no doubt: the situation for the Palestinian people is intolerable. America will not turn our backs on the legitimate Palestinian aspiration for dignity, opportunity, and a state of their own. For decades, there has been a stalemate: two peoples with legitimate aspirations, each with a painful history that makes compromise elusive. It is easy to point fingers – for Palestinians to point to the displacement brought by Israel's founding, and for Israelis to point to the constant hostility and attacks throughout its history from within its borders as well as beyond.

But if we see this conflict only from one side or the other, then we will be blind to the truth: the only resolution is for the aspirations of both sides to be met through two states, where Israelis and Palestinians each live in peace and security. That is in Israel's interest, Palestine's interest, America's interest, and the world's interest. That is why I intend to personally pursue this outcome with all the patience that the task requires. The obligations that the parties have agreed to under the Road Map are clear. For peace to come, it is time for them – and all of us – to live up to our responsibilities. Palestinians must abandon violence. Resistance through violence and killing is wrong and does not succeed. For centuries, black people in America suffered the lash of the whip as slaves and the humiliation of segregation. But it was not violence that won full and equal rights. It was a peaceful and determined insistence upon the ideals at the center of America's founding. This same story can be told by people from South Africa to South Asia; from Eastern Europe to Indonesia. It's a story with a simple truth: that violence is a dead end. It is a sign of neither courage nor power to shoot rockets at sleeping children, or to blow up old women on a bus. That is not how moral authority is claimed; that is how it is surrendered.

Now is the time for Palestinians to focus on what they can build. The Palestinian Authority must develop its capacity to govern, with institutions that serve the needs of its people. Hamas does have support among some Palestinians, but they also have responsibilities. To play a role in fulfilling Palestinian aspirations, and to unify the Palestinian people, Hamas must put an end to violence, recognize past agreements, and recognize Israel's right to exist. At the same time, Israelis must acknowledge that just as Israel's right to exist cannot be denied, neither can Palestine's. The United States does not accept the legitimacy of continued Israeli settlements. This construction violates previous agreements and undermines efforts to achieve peace. It is time for these settlements to stop. Israel must also live up to its obligations to ensure that Palestinians can live, and work, and develop their society. And just as it devastates Palestinian families, the continuing humanitarian crisis in Gaza does not serve Israel's security; neither does the continuing lack of opportunity in the West Bank. Progress in the daily lives of the Palestinian people must be part of a road to peace, and Israel must take concrete steps to enable such progress.

Finally, the Arab States must recognize that the Arab Peace Initiative was an important beginning, but not the end of their responsibilities. The Arab-Israeli conflict should no longer be used to distract the people of Arab nations from other problems. Instead, it must be a cause for action to help the Palestinian people develop the institutions that will sustain their state; to recognize Israel's legitimacy; and to choose progress over a self-defeating focus on the past. America will align our policies with those who pursue peace, and say in public what we say in private to Israelis and Palestinians and Arabs. We cannot impose peace. But privately, many Muslims recognize that Israel will not go away. Likewise, many Israelis recognize the need for a Palestinian state. It is time for us to act on what everyone knows to be true. Too many tears have flowed. Too much blood has been shed. All of us have a responsibility to work for the day when the mothers of Israelis and Palestinians can see their children grow up without fear; when the Holy Land of three great faiths is the place of peace that God intended it to be; when Jerusalem is a secure and lasting home for Jews and Christians and Muslims, and a place for all of the children of Abraham to mingle peacefully together as in the story of Isra, when Moses, Jesus, and Mohammed (peace be upon them) joined in prayer. The third source of tension is our shared interest in the rights and responsibilities of nations on nuclear weapons. This issue has been a source of tension between the United States and the Islamic Republic of Iran.

For many years, Iran has defined itself in part by its opposition to my country, and there is indeed a tumultuous history between us. In the middle of the Cold War, the United States played a role in the overthrow of a democratically-elected Iranian government. Since the Islamic Revolution, Iran has played a role in acts of hostage-taking and violence against U.S. troops and civilians. This history is well known. Rather than remain trapped in the past, I have made it clear to Iran's leaders and people that my country is prepared to move forward. The question, now, is not what Iran is against, but rather what future it wants to build. It will be hard to overcome decades of mistrust, but we will proceed with courage, rectitude and resolve. There will be many issues to discuss between our two countries, and we are willing to move forward without preconditions on the basis of mutual respect. But it is clear to all concerned that when it comes to nuclear weapons, we have reached a decisive point. This is not simply about America's interests. It is about preventing a nuclear arms race in the Middle East that could lead this region and the world down a hugely dangerous path. I understand those who protest that some countries have weapons that others do not. No single nation should pick and choose which nations hold nuclear weapons. That is why I strongly reaffirmed America's commitment to seek a world in which no nations hold nuclear weapons. And any nation – including Iran – should have the right to access peaceful nuclear power if it complies with its responsibilities under the nuclear Non-Proliferation Treaty. That commitment is at the core of the Treaty, and it must be kept for all who fully abide by it. And I am hopeful that all countries in the region can share in this goal.

The fourth issue that I will address is democracy. I know there has been controversy about the promotion of democracy in recent years and much of this controversy is connected to the war in Iraq. So let me be clear: no system of government can or should be imposed upon one nation by any other. That does not lessen my commitment, however, to governments that reflect the will of the people. Each nation gives life to this principle in its own way, grounded in the traditions of its own people. America does not presume to know what is best for everyone, just as we would not presume to pick the outcome of a peaceful election. But I do have an unyielding belief that all people yearn for certain things: the ability to speak your mind and have a say in how you are governed; confidence in the rule of law and the equal administration of justice; government that is transparent and doesn't steal from the people; the freedom to live as you choose. Those are not just American ideas, they are human rights, and that is why we will support them everywhere. There is no straight line to realize this promise. But this much is clear: governments that protect these rights are ultimately more stable, successful and secure. Suppressing ideas never succeeds in making them go away.

America respects the right of all peaceful and law-abiding voices to be heard around the world, even if we disagree with them. And we will welcome all elected, peaceful governments – provided they govern with respect for all their people. This last point is important because there are some who advocate for democracy only when they are out of power; once in power, they are ruthless in suppressing the rights of others. No matter where it takes hold, government of the people and by the people sets a single standard for all who hold power: you must maintain your power through consent, not coercion; you must respect the rights of minorities, and participate with a spirit of tolerance and compromise; you must place the interests of your people and the legitimate workings of the political process above your party. Without these ingredients, elections alone do not make true democracy.

The fifth issue that we must address together is religious freedom. Islam has a proud tradition of tolerance. We see it in the history of Andalusia and Cordoba during the Inquisition. I saw it firsthand as a child in Indonesia, where devout Christians worshiped freely in an overwhelmingly Muslim country. That is the spirit we need today. People in every country should be free to choose and live their faith based upon the persuasion of the mind, heart, and soul. This tolerance is essential for religion to thrive, but it is being challenged in many different ways. Among some Muslims, there is a disturbing tendency to measure one's own faith by the rejection of another's. The richness of religious diversity must be upheld – whether it is for Maronites in Lebanon or the Copts in Egypt. And fault lines must be closed among Muslims as well, as the divisions between Sunni and Shia have led to tragic violence, particularly in Iraq. Freedom of religion is central to the ability of peoples to live together. We must always examine the ways in which we protect it. For instance, in the United States, rules on charitable giving have made it harder for Muslims to fulfill their religious obligation. That is why I am committed to working with American Muslims to ensure that they can fulfill zakat. Likewise, it is important for Western countries to avoid impeding Muslim citizens from practicing religion as they see fit – for instance, by dictating what clothes a Muslim woman should wear. We cannot disguise hostility towards any religion behind the pretence of liberalism. Indeed, faith should bring us together. That is why we are forging service projects in America that bring together Christians, Muslims, and Jews. That is why we welcome efforts like Saudi Arabian King Abdullah's Interfaith dialogue and Turkey's leadership in the Alliance of Civilizations. Around the world, we can turn dialogue into Interfaith service, so bridges between peoples lead to action – whether it is combating malaria in Africa, or providing relief after a natural disaster.

The sixth issue that I want to address is women's rights. I know there is debate about this issue. I reject the view of some in the West that a woman who chooses to cover her hair is somehow less equal, but I do believe that a woman who is denied an education is denied equality. And it is no coincidence that countries where women are well-educated are far more likely to be prosperous. Now let me be clear: issues of women's equality are by no means simply an issue for Islam. In Turkey, Pakistan, Bangladesh and Indonesia, we have seen Muslim-majority countries elect a woman to lead. Meanwhile, the struggle for women's equality continues in many aspects of American life, and in countries around the world. Our daughters can contribute just as much to society as our sons, and our common prosperity will be advanced by allowing all humanity – men and women – to reach their full potential. I do not believe that women must make the same choices as men in order to be equal, and I respect those women who choose to live their lives in traditional roles. But it should be their choice. That is why the United States will partner with any Muslim-majority country to support expanded literacy for girls, and to help young women pursue employment through micro-financing that helps people live their dreams. Finally, I want to discuss economic development and opportunity. I know that for many, the face of globalization is contradictory. The Internet and television can bring knowledge and information, but also offensive sexuality and mindless violence. Trade can bring new wealth and opportunities, but also huge disruptions and changing communities. In all nations – including my own – this change can bring fear. Fear that because of modernity we will lose of control over our economic choices, our politics, and most importantly our identities – those things we most cherish about our communities, our families, our traditions, and our faith.

But I also know that human progress cannot be denied. There need not be contradiction between development and tradition. Countries like Japan and South Korea grew their economies while maintaining distinct cultures. The same is true for the astonishing progress within Muslim-majority countries from Kuala Lumpur to Dubai. In ancient times and in our times, Muslim communities have been at the forefront of innovation and education. This is important because no development strategy can be based only upon what comes out of the ground, nor can it be sustained while young people are out of work. Many Gulf States have enjoyed great wealth as a consequence of oil, and some are beginning to focus it on broader development. But all of us must recognize that education and innovation will be the currency of the 21st century, and in too many Muslim communities there remains underinvestment in these areas. I am emphasizing such investments within my country. And while America in the past has focused on oil and gas in this part of the world, we now seek a broader engagement. On education, we will expand exchange programs, and increase scholarships, like the one that brought my father to America, while encouraging more Americans to study in Muslim communities. And we will match promising Muslim students with internships in America; invest in on-line learning for teachers and children around the world; and create a new online network, so a teenager in Kansas can communicate instantly with a teenager in Cairo. On economic development, we will create a new corps of business volunteers to partner with counterparts in Muslim-majority countries. And I will host a Summit on Entrepreneurship this year to identify how we can deepen ties between business leaders, foundations and social entrepreneurs in the United States and Muslim communities around the world. On science and technology, we will launch a new fund to support technological development in Muslim-majority countries, and to help transfer ideas to the marketplace so they can create jobs. We will open centers of scientific excellence in Africa, the Middle East and Southeast Asia, and appoint new Science Envoys to collaborate on programs that develop new sources of energy, create green jobs, digitize records, clean water, and grow new crops. And today I am announcing a new global effort with the Organization of the Islamic Conference to eradicate polio. And we will also expand partnerships with Muslim communities to promote child and maternal health. All these things must be done in partnership. Americans are ready to join with citizens and governments; community organizations, religious leaders, and businesses in Muslim communities around the world to help our people pursue a better life.

The issues that I have described will not be easy to address. But we have a responsibility to join together on behalf of the world we seek – a world where extremists no longer threaten our people, and American troops have come home; a world where Israelis and Palestinians are each secure in a state of their own, and nuclear energy is used for peaceful purposes; a world where governments serve their citizens, and the rights of all God's children are respected. Those are mutual interests. That is the world we seek. But we can only achieve it together. I know there are many – Muslim and non-Muslim – who question whether we can forge this new beginning. Some are eager to stoke the flames of division, and to stand in the way of progress. Some suggest that it isn't worth the effort – that we are fated to disagree, and civilizations are doomed to clash. Many more are simply skeptical that real change can occur. There is so much fear, so much mistrust. But if we choose to be bound by the past, we will never move forward. And I want to particularly say this to young people of every faith, in every country – you, more than anyone, have the ability to remake this world. All of us share this world for but a brief moment in time. The question is whether we spend that time focused on what pushes us apart, or whether we commit ourselves to an effort – a sustained effort – to find common ground, to focus on the future we seek for our children, and to respect the dignity of all human beings. It is easier to start wars than to end them. It is easier to blame others than to look inward; to see what is different about someone than to find the things we share. But we should choose the right path, not just the easy path. There is also one rule that lies at the heart of every religion – that we do unto others as we would have them do unto us. This truth transcends nations and peoples – a belief that isn't new; that isn't black or white or brown; that isn't Christian, or Muslim or Jew. It's a belief that pulsed in the cradle of civilization, and that still beats in the heart of billions. It's a faith in other people, and it's what brought me here today.

We have the power to make the world we seek, but only if we have the courage to make a new beginning, keeping in mind what has been written. The Holy Koran tells us, "O mankind! We have created you male and a female; and we have made you into nations and tribes so that you may know one another." The Talmud tells us: "The whole of the Torah is for the purpose of promoting peace." The Holy Bible tells us, "Blessed are the peacemakers, for they shall be called sons of God." The people of the world can live together in peace. We know that is God's vision. Now, that must be our work here on Earth. Thank you. And may God's peace be upon you.

04 giugno 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Edito in Proprio e Responsabile STUDIO TECNICO DALESSANDRO GIACOMO

Responsabile Per. Ind. Giacomo Dalessandro

Riferimaneti Leggi e Normative : Michele Dalessandro - Organizzazione, impaginazione grafica: Francesca Dalessandro

 

 

CAIRO 2009-06-04

il messaggio al mondo musulmano del presidente degli Stati Uniti

Il discorso di Obama al Cairo

Il testo integrale nella versione originale in inglese

MILANO - Ecco il testo del discorso tenuto dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama al Cairo.

I am honored to be in the timeless city of Cairo, and to be hosted by two remarkable institutions. For over a thousand years, Al-Azhar has stood as a beacon of Islamic learning, and for over a century, Cairo University has been a source of Egypt's advancement. Together, you represent the harmony between tradition and progress. I am grateful for your hospitality, and the hospitality of the people of Egypt. I am also proud to carry with me the goodwill of the American people, and a greeting of peace from Muslim communities in my country: assalaamu alaykum.

"We meet at a time of tension between the United States and Muslims around the world – tension rooted in historical forces that go beyond any current policy debate. The relationship between Islam and the West includes centuries of co-existence and cooperation, but also conflict and religious wars. More recently, tension has been fed by colonialism that denied rights and opportunities to many Muslims, and a Cold War in which Muslim-majority countries were too often treated as proxies without regard to their own aspirations.

Moreover, the sweeping change brought by modernity and globalization led many Muslims to view the West as hostile to the traditions of Islam. Violent extremists have exploited these tensions in a small but potent minority of Muslims. The attacks of September 11th, 2001 and the continued efforts of these extremists to engage in violence against civilians has led some in my country to view Islam as inevitably hostile not only to America and Western countries, but also to human rights. This has bred more fear and mistrust. So long as our relationship is defined by our differences, we will empower those who sow hatred rather than peace, and who promote conflict rather than the cooperation that can help all of our people achieve justice and prosperity. This cycle of suspicion and discord must end. I have come here to seek a new beginning between the United States and Muslims around the world; one based upon mutual interest and mutual respect; and one based upon the truth that America and Islam are not exclusive, and need not be in competition. Instead, they overlap, and share common principles – principles of justice and progress; tolerance and the dignity of all human beings. I do so recognizing that change cannot happen overnight. No single speech can eradicate years of mistrust, nor can I answer in the time that I have all the complex questions that brought us to this point. But I am convinced that in order to move forward, we must say openly the things we hold in our hearts, and that too often are said only behind closed doors. There must be a sustained effort to listen to each other; to learn from each other; to respect one another; and to seek common ground.

As the Holy Koran tells us, "Be conscious of God and speak always the truth." That is what I will try to do – to speak the truth as best I can, humbled by the task before us, and firm in my belief that the interests we share as human beings are far more powerful than the forces that drive us apart. Part of this conviction is rooted in my own experience. I am a Christian, but my father came from a Kenyan family that includes generations of Muslims. As a boy, I spent several years in Indonesia and heard the call of the azaan at the break of dawn and the fall of dusk. As a young man, I worked in Chicago communities where many found dignity and peace in their Muslim faith. As a student of history, I also know civilization's debt to Islam. It was Islam – at places like Al-Azhar University – that carried the light of learning through so many centuries, paving the way for Europe's Renaissance and Enlightenment. It was innovation in Muslim communities that developed the order of algebra; our magnetic compass and tools of navigation; our mastery of pens and printing; our understanding of how disease spreads and how it can be healed. Islamic culture has given us majestic arches and soaring spires; timeless poetry and cherished music; elegant calligraphy and places of peaceful contemplation. And throughout history, Islam has demonstrated through words and deeds the possibilities of religious tolerance and racial equality.

I know, too, that Islam has always been a part of America's story. The first nation to recognize my country was Morocco. In signing the Treaty of Tripoli in 1796, our second President John Adams wrote, "The United States has in itself no character of enmity against the laws, religion or tranquility of Muslims." And since our founding, American Muslims have enriched the United States. They have fought in our wars, served in government, stood for civil rights, started businesses, taught at our Universities, excelled in our sports arenas, won Nobel Prizes, built our tallest building, and lit the Olympic Torch. And when the first Muslim-American was recently elected to Congress, he took the oath to defend our Constitution using the same Holy Koran that one of our Founding Fathers – Thomas Jefferson – kept in his personal library. So I have known Islam on three continents before coming to the region where it was first revealed. That experience guides my conviction that partnership between America and Islam must be based on what Islam is, not what it isn't. And I consider it part of my responsibility as President of the United States to fight against negative stereotypes of Islam wherever they appear. But that same principle must apply to Muslim perceptions of America. Just as Muslims do not fit a crude stereotype, America is not the crude stereotype of a self-interested empire. The United States has been one of the greatest sources of progress that the world has ever known. We were born out of revolution against an empire. We were founded upon the ideal that all are created equal, and we have shed blood and struggled for centuries to give meaning to those words – within our borders, and around the world. We are shaped by every culture, drawn from every end of the Earth, and dedicated to a simple concept: E pluribus unum: "Out of many, one."

Much has been made of the fact that an African-American with the name Barack Hussein Obama could be elected President. But my personal story is not so unique. The dream of opportunity for all people has not come true for everyone in America, but its promise exists for all who come to our shores – that includes nearly seven million American Muslims in our country today who enjoy incomes and education that are higher than average. Moreover, freedom in America is indivisible from the freedom to practice one's religion. That is why there is a mosque in every state of our union, and over 1,200 mosques within our borders. That is why the U.S. government has gone to court to protect the right of women and girls to wear the hijab, and to punish those who would deny it.

Islam is a part of America. And I believe that America holds within her the truth that regardless of race, religion or station in life, all of us share common aspirations – to live in peace and security; to get an education and to work with dignity; to love our families, our communities, and our God. These things we share. This is the hope of all humanity. Of course, recognizing our common humanity is only the beginning of our task. Words alone cannot meet the needs of our people. These needs will be met only if we act boldly in the years ahead; and if we understand that the challenges we face are shared, and our failure to meet them will hurt us all. For we have learned from recent experience that when a financial system weakens in one country, prosperity is hurt everywhere. When a new flu infects one human being, all are at risk. When one nation pursues a nuclear weapon, the risk of nuclear attack rises for all nations. When violent extremists operate in one stretch of mountains, people are endangered across an ocean. And when innocents in Bosnia and Darfur are slaughtered, that is a stain on our collective conscience. That is what it means to share this world in the 21st century. That is the responsibility we have to one another as human beings. This is a difficult responsibility to embrace. For human history has often been a record of nations and tribes subjugating one another to serve their own interests. Yet in this new age, such attitudes are self-defeating. Given our interdependence, any world order that elevates one nation or group of people over another will inevitably fail. So whatever we think of the past, we must not be prisoners of it. Our problems must be dealt with through partnership; progress must be shared. That does not mean we should ignore sources of tension. Indeed, it suggests the opposite: we must face these tensions squarely.

And so in that spirit, let me speak as clearly and plainly as I can about some specific issues that I believe we must finally confront together. The first issue that we have to confront is violent extremism in all of its forms. In Ankara, I made clear that America is not – and never will be – at war with Islam. We will, however, relentlessly confront violent extremists who pose a grave threat to our security. Because we reject the same thing that people of all faiths reject: the killing of innocent men, women, and children. And it is my first duty as President to protect the American people. The situation in Afghanistan demonstrates America's goals, and our need to work together. Over seven years ago, the United States pursued al Qaeda and the Taliban with broad international support. We did not go by choice, we went because of necessity. I am aware that some question or justify the events of 9/11. But let us be clear: al Qaeda killed nearly 3,000 people on that day. The victims were innocent men, women and children from America and many other nations who had done nothing to harm anybody. And yet Al Qaeda chose to ruthlessly murder these people, claimed credit for the attack, and even now states their determination to kill on a massive scale. They have affiliates in many countries and are trying to expand their reach. These are not opinions to be debated; these are facts to be dealt with. Make no mistake: we do not want to keep our troops in Afghanistan. We seek no military bases there. It is agonizing for America to lose our young men and women. It is costly and politically difficult to continue this conflict. We would gladly bring every single one of our troops home if we could be confident that there were not violent extremists in Afghanistan and Pakistan determined to kill as many Americans as they possibly can. But that is not yet the case. That's why we're partnering with a coalition of forty-six countries. And despite the costs involved, America's commitment will not weaken.

Indeed, none of us should tolerate these extremists. They have killed in many countries. They have killed people of different faiths – more than any other, they have killed Muslims. Their actions are irreconcilable with the rights of human beings, the progress of nations, and with Islam. The Holy Koran teaches that whoever kills an innocent, it is as if he has killed all mankind; and whoever saves a person, it is as if he has saved all mankind. The enduring faith of over a billion people is so much bigger than the narrow hatred of a few. Islam is not part of the problem in combating violent extremism – it is an important part of promoting peace. We also know that military power alone is not going to solve the problems in Afghanistan and Pakistan. That is why we plan to invest ê1.5 billion each year over the next five years to partner with Pakistanis to build schools and hospitals, roads and businesses, and hundreds of millions to help those who have been displaced. And that is why we are providing more than ê2.8 billion to help Afghans develop their economy and deliver services that people depend upon. Let me also address the issue of Iraq. Unlike Afghanistan, Iraq was a war of choice that provoked strong differences in my country and around the world. Although I believe that the Iraqi people are ultimately better off without the tyranny of Saddam Hussein, I also believe that events in Iraq have reminded America of the need to use diplomacy and build international consensus to resolve our problems whenever possible. Indeed, we can recall the words of Thomas Jefferson, who said: "I hope that our wisdom will grow with our power, and teach us that the less we use our power the greater it will be." Today, America has a dual responsibility: to help Iraq forge a better future – and to leave Iraq to Iraqis. I have made it clear to the Iraqi people that we pursue no bases, and no claim on their territory or resources. Iraq's sovereignty is its own. That is why I ordered the removal of our combat brigades by next August. That is why we will honor our agreement with Iraq's democratically-elected government to remove combat troops from Iraqi cities by July, and to remove all our troops from Iraq by 2012.

We will help Iraq train its Security Forces and develop its economy. But we will support a secure and united Iraq as a partner, and never as a patron. And finally, just as America can never tolerate violence by extremists, we must never alter our principles. 9/11 was an enormous trauma to our country. The fear and anger that it provoked was understandable, but in some cases, it led us to act contrary to our ideals. We are taking concrete actions to change course. I have unequivocally prohibited the use of torture by the United States, and I have ordered the prison at Guantanamo Bay closed by early next year. So America will defend itself respectful of the sovereignty of nations and the rule of law. And we will do so in partnership with Muslim communities which are also threatened. The sooner the extremists are isolated and unwelcome in Muslim communities, the sooner we will all be safer. The second major source of tension that we need to discuss is the situation between Israelis, Palestinians and the Arab world. America's strong bonds with Israel are well known. This bond is unbreakable. It is based upon cultural and historical ties, and the recognition that the aspiration for a Jewish homeland is rooted in a tragic history that cannot be denied.

Around the world the Jewish people were persecuted for centuries, and anti-semitism in Europe culminated in unprecedented holocaust. Tomorrow I will visit Buchenwald, which was part of a network of camps where Jews were enslaved, tortured, shot and gassed to death by the Third Reich. Six million Jews were killed – more than the entire Jewish population of Israel today. Denying that fact is baseless, ignorant, and hateful. Threatening Israel with destruction – or repeating vile stereotypes about Jews – is deeply wrong, and only serves to evoke in the minds of Israelis this most painful of memories while preventing the peace that the people of this region deserve. On the other hand, it is also undeniable that the Palestinian people – Muslims and Christians – have suffered in pursuit of a homeland. For more than sixty years they have endured the pain of dislocation. Many wait in refugee camps in the West Bank, Gaza, and neighboring lands for a life of peace and security that they have never been able to lead. They endure the daily humiliations – large and small – that come with occupation. So let there be no doubt: the situation for the Palestinian people is intolerable. America will not turn our backs on the legitimate Palestinian aspiration for dignity, opportunity, and a state of their own. For decades, there has been a stalemate: two peoples with legitimate aspirations, each with a painful history that makes compromise elusive. It is easy to point fingers – for Palestinians to point to the displacement brought by Israel's founding, and for Israelis to point to the constant hostility and attacks throughout its history from within its borders as well as beyond.

But if we see this conflict only from one side or the other, then we will be blind to the truth: the only resolution is for the aspirations of both sides to be met through two states, where Israelis and Palestinians each live in peace and security. That is in Israel's interest, Palestine's interest, America's interest, and the world's interest. That is why I intend to personally pursue this outcome with all the patience that the task requires. The obligations that the parties have agreed to under the Road Map are clear. For peace to come, it is time for them – and all of us – to live up to our responsibilities. Palestinians must abandon violence. Resistance through violence and killing is wrong and does not succeed. For centuries, black people in America suffered the lash of the whip as slaves and the humiliation of segregation. But it was not violence that won full and equal rights. It was a peaceful and determined insistence upon the ideals at the center of America's founding. This same story can be told by people from South Africa to South Asia; from Eastern Europe to Indonesia. It's a story with a simple truth: that violence is a dead end. It is a sign of neither courage nor power to shoot rockets at sleeping children, or to blow up old women on a bus. That is not how moral authority is claimed; that is how it is surrendered.

Now is the time for Palestinians to focus on what they can build. The Palestinian Authority must develop its capacity to govern, with institutions that serve the needs of its people. Hamas does have support among some Palestinians, but they also have responsibilities. To play a role in fulfilling Palestinian aspirations, and to unify the Palestinian people, Hamas must put an end to violence, recognize past agreements, and recognize Israel's right to exist. At the same time, Israelis must acknowledge that just as Israel's right to exist cannot be denied, neither can Palestine's. The United States does not accept the legitimacy of continued Israeli settlements. This construction violates previous agreements and undermines efforts to achieve peace. It is time for these settlements to stop. Israel must also live up to its obligations to ensure that Palestinians can live, and work, and develop their society. And just as it devastates Palestinian families, the continuing humanitarian crisis in Gaza does not serve Israel's security; neither does the continuing lack of opportunity in the West Bank. Progress in the daily lives of the Palestinian people must be part of a road to peace, and Israel must take concrete steps to enable such progress.

Finally, the Arab States must recognize that the Arab Peace Initiative was an important beginning, but not the end of their responsibilities. The Arab-Israeli conflict should no longer be used to distract the people of Arab nations from other problems. Instead, it must be a cause for action to help the Palestinian people develop the institutions that will sustain their state; to recognize Israel's legitimacy; and to choose progress over a self-defeating focus on the past. America will align our policies with those who pursue peace, and say in public what we say in private to Israelis and Palestinians and Arabs. We cannot impose peace. But privately, many Muslims recognize that Israel will not go away. Likewise, many Israelis recognize the need for a Palestinian state. It is time for us to act on what everyone knows to be true. Too many tears have flowed. Too much blood has been shed. All of us have a responsibility to work for the day when the mothers of Israelis and Palestinians can see their children grow up without fear; when the Holy Land of three great faiths is the place of peace that God intended it to be; when Jerusalem is a secure and lasting home for Jews and Christians and Muslims, and a place for all of the children of Abraham to mingle peacefully together as in the story of Isra, when Moses, Jesus, and Mohammed (peace be upon them) joined in prayer. The third source of tension is our shared interest in the rights and responsibilities of nations on nuclear weapons. This issue has been a source of tension between the United States and the Islamic Republic of Iran.

For many years, Iran has defined itself in part by its opposition to my country, and there is indeed a tumultuous history between us. In the middle of the Cold War, the United States played a role in the overthrow of a democratically-elected Iranian government. Since the Islamic Revolution, Iran has played a role in acts of hostage-taking and violence against U.S. troops and civilians. This history is well known. Rather than remain trapped in the past, I have made it clear to Iran's leaders and people that my country is prepared to move forward. The question, now, is not what Iran is against, but rather what future it wants to build. It will be hard to overcome decades of mistrust, but we will proceed with courage, rectitude and resolve. There will be many issues to discuss between our two countries, and we are willing to move forward without preconditions on the basis of mutual respect. But it is clear to all concerned that when it comes to nuclear weapons, we have reached a decisive point. This is not simply about America's interests. It is about preventing a nuclear arms race in the Middle East that could lead this region and the world down a hugely dangerous path. I understand those who protest that some countries have weapons that others do not. No single nation should pick and choose which nations hold nuclear weapons. That is why I strongly reaffirmed America's commitment to seek a world in which no nations hold nuclear weapons. And any nation – including Iran – should have the right to access peaceful nuclear power if it complies with its responsibilities under the nuclear Non-Proliferation Treaty. That commitment is at the core of the Treaty, and it must be kept for all who fully abide by it. And I am hopeful that all countries in the region can share in this goal.

The fourth issue that I will address is democracy. I know there has been controversy about the promotion of democracy in recent years and much of this controversy is connected to the war in Iraq. So let me be clear: no system of government can or should be imposed upon one nation by any other. That does not lessen my commitment, however, to governments that reflect the will of the people. Each nation gives life to this principle in its own way, grounded in the traditions of its own people. America does not presume to know what is best for everyone, just as we would not presume to pick the outcome of a peaceful election. But I do have an unyielding belief that all people yearn for certain things: the ability to speak your mind and have a say in how you are governed; confidence in the rule of law and the equal administration of justice; government that is transparent and doesn't steal from the people; the freedom to live as you choose. Those are not just American ideas, they are human rights, and that is why we will support them everywhere. There is no straight line to realize this promise. But this much is clear: governments that protect these rights are ultimately more stable, successful and secure. Suppressing ideas never succeeds in making them go away.

America respects the right of all peaceful and law-abiding voices to be heard around the world, even if we disagree with them. And we will welcome all elected, peaceful governments – provided they govern with respect for all their people. This last point is important because there are some who advocate for democracy only when they are out of power; once in power, they are ruthless in suppressing the rights of others. No matter where it takes hold, government of the people and by the people sets a single standard for all who hold power: you must maintain your power through consent, not coercion; you must respect the rights of minorities, and participate with a spirit of tolerance and compromise; you must place the interests of your people and the legitimate workings of the political process above your party. Without these ingredients, elections alone do not make true democracy.

The fifth issue that we must address together is religious freedom. Islam has a proud tradition of tolerance. We see it in the history of Andalusia and Cordoba during the Inquisition. I saw it firsthand as a child in Indonesia, where devout Christians worshiped freely in an overwhelmingly Muslim country. That is the spirit we need today. People in every country should be free to choose and live their faith based upon the persuasion of the mind, heart, and soul. This tolerance is essential for religion to thrive, but it is being challenged in many different ways. Among some Muslims, there is a disturbing tendency to measure one's own faith by the rejection of another's. The richness of religious diversity must be upheld – whether it is for Maronites in Lebanon or the Copts in Egypt. And fault lines must be closed among Muslims as well, as the divisions between Sunni and Shia have led to tragic violence, particularly in Iraq. Freedom of religion is central to the ability of peoples to live together. We must always examine the ways in which we protect it. For instance, in the United States, rules on charitable giving have made it harder for Muslims to fulfill their religious obligation. That is why I am committed to working with American Muslims to ensure that they can fulfill zakat. Likewise, it is important for Western countries to avoid impeding Muslim citizens from practicing religion as they see fit – for instance, by dictating what clothes a Muslim woman should wear. We cannot disguise hostility towards any religion behind the pretence of liberalism. Indeed, faith should bring us together. That is why we are forging service projects in America that bring together Christians, Muslims, and Jews. That is why we welcome efforts like Saudi Arabian King Abdullah's Interfaith dialogue and Turkey's leadership in the Alliance of Civilizations. Around the world, we can turn dialogue into Interfaith service, so bridges between peoples lead to action – whether it is combating malaria in Africa, or providing relief after a natural disaster.

The sixth issue that I want to address is women's rights. I know there is debate about this issue. I reject the view of some in the West that a woman who chooses to cover her hair is somehow less equal, but I do believe that a woman who is denied an education is denied equality. And it is no coincidence that countries where women are well-educated are far more likely to be prosperous. Now let me be clear: issues of women's equality are by no means simply an issue for Islam. In Turkey, Pakistan, Bangladesh and Indonesia, we have seen Muslim-majority countries elect a woman to lead. Meanwhile, the struggle for women's equality continues in many aspects of American life, and in countries around the world. Our daughters can contribute just as much to society as our sons, and our common prosperity will be advanced by allowing all humanity – men and women – to reach their full potential. I do not believe that women must make the same choices as men in order to be equal, and I respect those women who choose to live their lives in traditional roles. But it should be their choice. That is why the United States will partner with any Muslim-majority country to support expanded literacy for girls, and to help young women pursue employment through micro-financing that helps people live their dreams. Finally, I want to discuss economic development and opportunity. I know that for many, the face of globalization is contradictory. The Internet and television can bring knowledge and information, but also offensive sexuality and mindless violence. Trade can bring new wealth and opportunities, but also huge disruptions and changing communities. In all nations – including my own – this change can bring fear. Fear that because of modernity we will lose of control over our economic choices, our politics, and most importantly our identities – those things we most cherish about our communities, our families, our traditions, and our faith.

But I also know that human progress cannot be denied. There need not be contradiction between development and tradition. Countries like Japan and South Korea grew their economies while maintaining distinct cultures. The same is true for the astonishing progress within Muslim-majority countries from Kuala Lumpur to Dubai. In ancient times and in our times, Muslim communities have been at the forefront of innovation and education. This is important because no development strategy can be based only upon what comes out of the ground, nor can it be sustained while young people are out of work. Many Gulf States have enjoyed great wealth as a consequence of oil, and some are beginning to focus it on broader development. But all of us must recognize that education and innovation will be the currency of the 21st century, and in too many Muslim communities there remains underinvestment in these areas. I am emphasizing such investments within my country. And while America in the past has focused on oil and gas in this part of the world, we now seek a broader engagement. On education, we will expand exchange programs, and increase scholarships, like the one that brought my father to America, while encouraging more Americans to study in Muslim communities. And we will match promising Muslim students with internships in America; invest in on-line learning for teachers and children around the world; and create a new online network, so a teenager in Kansas can communicate instantly with a teenager in Cairo. On economic development, we will create a new corps of business volunteers to partner with counterparts in Muslim-majority countries. And I will host a Summit on Entrepreneurship this year to identify how we can deepen ties between business leaders, foundations and social entrepreneurs in the United States and Muslim communities around the world. On science and technology, we will launch a new fund to support technological development in Muslim-majority countries, and to help transfer ideas to the marketplace so they can create jobs. We will open centers of scientific excellence in Africa, the Middle East and Southeast Asia, and appoint new Science Envoys to collaborate on programs that develop new sources of energy, create green jobs, digitize records, clean water, and grow new crops. And today I am announcing a new global effort with the Organization of the Islamic Conference to eradicate polio. And we will also expand partnerships with Muslim communities to promote child and maternal health. All these things must be done in partnership. Americans are ready to join with citizens and governments; community organizations, religious leaders, and businesses in Muslim communities around the world to help our people pursue a better life.

The issues that I have described will not be easy to address. But we have a responsibility to join together on behalf of the world we seek – a world where extremists no longer threaten our people, and American troops have come home; a world where Israelis and Palestinians are each secure in a state of their own, and nuclear energy is used for peaceful purposes; a world where governments serve their citizens, and the rights of all God's children are respected. Those are mutual interests. That is the world we seek. But we can only achieve it together. I know there are many – Muslim and non-Muslim – who question whether we can forge this new beginning. Some are eager to stoke the flames of division, and to stand in the way of progress. Some suggest that it isn't worth the effort – that we are fated to disagree, and civilizations are doomed to clash. Many more are simply skeptical that real change can occur. There is so much fear, so much mistrust. But if we choose to be bound by the past, we will never move forward. And I want to particularly say this to young people of every faith, in every country – you, more than anyone, have the ability to remake this world. All of us share this world for but a brief moment in time. The question is whether we spend that time focused on what pushes us apart, or whether we commit ourselves to an effort – a sustained effort – to find common ground, to focus on the future we seek for our children, and to respect the dignity of all human beings. It is easier to start wars than to end them. It is easier to blame others than to look inward; to see what is different about someone than to find the things we share. But we should choose the right path, not just the easy path. There is also one rule that lies at the heart of every religion – that we do unto others as we would have them do unto us. This truth transcends nations and peoples – a belief that isn't new; that isn't black or white or brown; that isn't Christian, or Muslim or Jew. It's a belief that pulsed in the cradle of civilization, and that still beats in the heart of billions. It's a faith in other people, and it's what brought me here today.

We have the power to make the world we seek, but only if we have the courage to make a new beginning, keeping in mind what has been written. The Holy Koran tells us, "O mankind! We have created you male and a female; and we have made you into nations and tribes so that you may know one another." The Talmud tells us: "The whole of the Torah is for the purpose of promoting peace." The Holy Bible tells us, "Blessed are the peacemakers, for they shall be called sons of God." The people of the world can live together in peace. We know that is God's vision. Now, that must be our work here on Earth. Thank you. And may God's peace be upon you.

 

04 giugno 2009